Con questa nuova rubrica, intendiamo aprire uno spazio di riflessione sulla psichiatria di comunità e sulla psichiatria residenziale. Verranno approfonditi temi legati alle strutture “protette”, le soluzioni per il trattamento delle patologie portate dalle persone che in esse dimorano, i modelli teorici, gli esempi dall’Europa.
Il significato della rubrica è anche, ma non solo, quello di delimitare i confini di una figura professionale che di fatto, sulla carta, non esiste e non è riconosciuta, quella di operatore di comunità, che sappiamo essere molto diffusa, a cavallo tra un lavoro psicoterapeutico e un approccio di tipo più pedagogico/educativo.
Crediamo che mettere insieme contributi provenienti da colleghi che lavorano nel contesto della strutture protette, possa contribuire da una lato a conferire identità a una figura strutturalmente, per forza di cose ibrida (pensiamo alla difficoltà di tenere insieme aspetti normativi, la gestione delle regole delle strutture, con la necessità di offrire servizi terapeutici, di fare anche accoglienza e ascolto), dall’altro a creare uno spazio di riflessione sui diversi modelli di lavoro e sulle diverse realtà italiane.
Come chiunque lavori o abbia saltuariamente lavorato per strutture residenziali saprà, alle strutture chiuse afferiscono pazienti che arrivano tendenzialmente da due contenitori: il contenitore dei Servizi psichiatrici del territorio, e i tribunali di giustizia (in riferimento ai detenuti portatori di una fragilità psichica che scontano una parte o tutta la loro pena dentro la struttura, con diverse forme di misura cautelare).
La complessità di questo tipo di pazienti proviene sia dal tipo di problematica che essi portano, spesso di difficile gestione in contesti non protetti, sia dalla motivazione al lavoro terapeutico, che spesso è troppo poca, per via del tipo di invio: un paziente che arrivi inviato da un tribunale per lo sconto di una pena, ha una motivazione molto diversa rispetto a un soggetto che decida volontariamente, o su consiglio dei Servizi, di procedere a un ricovero di durata spesso lunga per risolvere questioni legate alla propria vita e magari a problemi gravi di dipendenza.
In comunità terapeutica arrivano i pazienti più difficili, in tutti i sensi: persone non sufficientemente autonome da frequentare un ambulatorio e vivere in modo strutturato la propria quotidianità, né in grado di inserirsi nel circuito del lavoro. Un terapeuta privato non vedrà mai nel suo studio pazienti come quelli che vede un operatorie durante un suo turno, in una qualunque struttura. Il tipo di intervento, è per sua natura un intervento di equipe, basato sulla collaborazione di un gruppo che interagisce in modo stretto.
Questa rubrica sarà un contenitore in cui inviteremo i colleghi che vorranno esprimersi, a un confronto costruttivo sulle prassi, sui punti di forza e i punto di debolezza dei rispettivi luoghi di lavoro, magari distanti nello spazio, magari anche, perché no, da luoghi al di fuori dell’Italia.
Questi contributi si alterneranno a uscite della rubrica più “tecniche”, a riguardo del tema generale inerente il lavoro in psichiatria residenziale.
I rapporti di forza nei contesti chiusi
La comunità terapeutica, soprattutto quando si configura come istituzione protetta, può ravvisare in sé stessa il formarsi di alcune delle dinamiche tipiche delle istituzioni totali (ospedali, carceri, le passate realtà manicomiali), nel contesto di un vero ecosistema che presenta “forme” standardizzate, rapporti di gerarchia, flussi comunicativi più o meno rigidi, dinamiche interne più o meno sclerotizzate. Come chi lavora in strutture per pazienti gravi ben sa, il lavoro con l’utenza psichiatrica è un lavoro carico di difficoltà e fatica, per ragioni evidenti che hanno a che fare con la problematica psichiatrica per prima cosa, la gestione quotidiana dei pazienti (gli aspetti più normativo/educativi), la gestione del rapporto -spesso carico di dinamiche complesse- tra colleghi.
Inoltre, la conoscenza attuale a riguardo delle sindromi, non consente di avere un’effettiva ultima parola, dato che si sa ancora troppo poco a riguardo delle cause prime, e sostanzialmente le modalità di intervento si rifanno a modelli che si ripropongono ciclicamente da quando le prime strutture comunitarie furono fondate, circa trent’anni fa.
Questi modelli prevedono l’integrazione di approcci comportamentistici basati sullo strumento rinforzo-sanzione, con strumenti più legati alla tradizione psicodinamica (gruppi terapeutici, psicoterapia orientata), il tutto integrato a un approccio psicofarmacologico con funzione duplice: da un lato l’approccio al sintomo, dall’altro la necessità di “controllare”/sedare il paziente.
Nonostante i grandi passi avanti fatti dalla psichiatria occidentale, e il raffinamento delle teorie riguardanti le molteplici forme del disagio psichico, il modello di intervento si fonda, tendenzialmente, su un razionale triplo:
- la stabilizzazione dei sintomi in ottica medica (addolcire i picchi emotivi, regolare farmacologicamente il tono dell’umore, controllare le tendenze anticonservative)
- l’intervento moralizzante/rieducativo (per cui avrebbe senso, con un certo tipo di pazienti, effettuare un intervento educativo per mezzo di sanzioni/premi, nel contesto di un percorso comunitario che segue un andamento a fasi progressive, verso una maggiore “maturità”), che affonda le sue radici nei vecchi metodi di indottrinamento cattolico o legati all’ambiente militaresco
- l’intervento psicoterapeutico, che assume di volta in volta forma diversa a seconda di quale sia l’orientamento teorico del luogo, le persone chi ci lavorano, ecc., basato in questo caso sul cercare di comprendere più a fondo il problema portato dal soggetto, e di fare in modo che lui stesso ne prenda coscienza per poi assumerne maggiore controllo
La pluralità dei professionisti impegnati nel lavoro di traduzione del malessere del paziente, porta con sé la necessità di lavorare con modelli di mente che sono tanto diversi quanto sono diversi gli assunti epistemologici delle singoli matrici teoriche dei vari professionisti.
Questo vuol dire che ognuno tenderà a leggere la realtà del paziente a partire dal proprio occhiale teorico, a volte in contrasto con quello dei colleghi. Sul piano pratico, a dire l’ultima parola sui pazienti è spesso chi riveste un ruolo di maggiore peso gerarchico all’interno della struttura. Questo succede quando più teorie si pongono sullo stesso piano, a volte contraddicendosi (pensiamo per esempio a chi vede la tossicodipendenza come un comportamento da rieducare/sopprimere rispetto a chi invece la concettualizza come un tentativo di auto-guarigione, ecc.), che predispone all’emergere di un punto di vista dominante, che consente infine al percorso di “svolgersi” e di proseguire, non più ostacolato dalla molteplicità dei punti di vista e dalle discussioni che possano nascere intorno a un paziente.
Si colloca qui il rischio di una deriva autoritaria, che spesso si osserva nei contesti chiusi come una comunità ma che in fondo è tipico di ogni ambito medico regolato da rapporti di gerarchia, che diviene prticolarmente pericoloso nei contesti dove dimorano pazienti portatori di un problema “psi”.
E’ utile dunque interrogarsi su quanto i contesti “chiusi” per propria natura inducano il personale che ci lavora a sviluppare meccanismi anti-democratici, che rischierebbero di polarizzare il dialogo tra operatori e pazienti verso uno squilibrio strutturale (operatori sempre più potenti, pazienti sempre più indeboliti o dis-empowered).
Kernberg sui rapporti di forza
Kernberg (1987), da un’indagine della letteratura a riguardo della psichiatria residenziale, isola alcuni aspetti facendone un’analisi critica:
- Nel trattamento di comunità il personale e i pazienti funzionano insieme come entità unica che ha come obiettivo il portare avanti la cura. L’idea promossa da Kernberg è che i pazienti, sia individualmente sia in gruppo, partecipino attivamente e siano corresponsabili del proprio trattamento.
- La cultura terapeutica si basa sul fatto che tutte le attività e tutte le interazioni debbano divenire oggetto di riflessione allo scopo di rieducare e riabilitare. Deve esserci un confronto tra vita e apprendimento, con un flusso comunicativo aperto tra residenti e operatori fatto di feedback immediati e continui (cultura dell’indagine).
Kernberg pone particolare enfasi nel sottolineare l’importanza di momenti di comunicazione e chiarificazione tra utenti e operatori, attraverso gruppi e discussioni cadenzate.
A riguardo dei rapporti di forza, Kernberg individua alcuni aspetti problematici delle comunità terapeutiche, relative alla distanza tra un approccio gestionale autoritario e un approccio invece più basato su un democrazia “diretta”:
- Nella cultura della comunità terapeutica si presuppone che l’autoritarismo sia antiterapeutico e che le decisioni prese sulla base del potere piuttosto che della condivisione vadano contro gli interessi dei pazienti. Nella pratica quotidiana possiamo constatare che l’esercizio dell’autorità e del potere è un aspetto molto delicato ma non sempre risulta dannoso: esiste un’autorità funzionale che si contrappone ad un’autorità inadeguata. Il vero contrasto è tra decisionalità autoritaria e decisionalità funzionale. Una gestione autoritaria può distorcere l’utilizzo delle regole, precludendo la possibilità di rendere più completo il trattamento grazie all’uso terapeutico della Comunità come sistema sociale.
- Il concetto di comunità terapeutica implica che la democratizzazione del processo di cura sia di per sé terapeutico. Si pensa che la democratizzazione accresca l’autostima del paziente, l’efficacia del suo funzionamento e l’onestà delle sue comunicazioni, avendo perciò un effetto positivo diretto sulla sua crescita personale. Questo aspetto si concretizza nella libertà di adesione al percorso comunitario: i pazienti rimangono liberi di aderire o meno al trattamento residenziale (con le eccezioni degli invii via tribunale per coloro che detengono misure cautelari)
Bibliografia
- Basaglia, F. (1968). L’istituzione negata: rapporto da un ospedale psichiatrico. Einaudi.
- Kernberg O. (1987), Disturbi gravi della personalità, Bollati Boringhieri Torino;
- Goffman E. (1969), Asylums, Einaudi, Torino;
- Foucault, M. (2012), Storia della follia nell’età classica, Bur.
Caro Raffaele,
grazie per l’avvio di questa interessante rubrica sulla figura dell’operatore di comunità. Da qualche anno lavoro come coordinatore in una piccola Casa Alloggio per pazienti psichiatrici a Salerno e ogni giorno mi rendo sempre più conto di quanto sia importante la competenza e la formazione degli operatori che lavorano a contatto con i pazienti. Si tratta davvero di una figura ibrida, che fa un lavoro a metà tra quello dello psicologo e quello dell’educatore. E’ assurdo che, almeno in Campania, il regolamento regionale preveda solo infermieri e OSS, appena un educatore e nessuno psicologo pe l’organico delle Case Alloggio. Questo la dice lunga su quanto l’ottica del legislatore (regionale nel nostro caso) sia ancora legata a schemi assistenziali vicini ad un modello medico-biologico: il paziente non è un soggetto da sostenere (e a volte spingere) in un percorso di acquisizione di spazi di libertà, bensì un organismo da “controllare” nei suoi picchi sintomatologici. In questa situazione diventa indispensabile per una comunità che voglia lavorare diversamente formare gli operatori a competenze che a volte esulano dai loro compiti tradizionali. Si è fortunati quando si lavora con persone disposte ad imparare. Non sempre è così.
Scendendo nel merito quello che ritengo più interessante dell’articolo è il modo in cui porti alla luce le dinamiche tipiche delle comunità terapeutiche. Credo che l’uso di qualsiasi pratica riabilitativa assuma senso solo all’interno del modello terapeutico di partenza. Nella mia piccola Casa Alloggio mettiamo all’opera un modello fenomenologico che attribuisce importanza centrare alla consapevolezza, alla libertà e alla responsabilità di ogni paziente. in quest’ottica anche utilizzare alcune tecniche premio-punizione diventa una cosa molto diversa dal mero “comportamentismo”, che stimola i pazienti a crescere fino a diventare in grado di confrontarsi in maniera umana prima di tutto tra di loro. Per quanto riguarda la questione delle dinamiche di potere penso che da un lato sia molto utile (soprattutto in una fase iniziale) trasmettere il rispetto dei ruoli e delle gerarchie. Questo aiuta i pazienti a iniziare il dialogo con il mondo a partire da dove si trovano effettivamente.
In una seconda fase diventa invece utile mettere in dialogo i pazienti con il gruppo degli operatori, rompendo la rigidità di una struttura di potere imposta dalle gerarchie. Per fare questo però bisogna aver preventivamente lavorato per lungo tempo con gli operatori per metterli in grado di mettersi in discussione nel dialogo, in una maniera non comune. L’operatore deve essere così avanti da avere il coraggio di farsi mettere in discussione (pure mantenendo il suo ruolo) per il bene e la crescita del paziente. Molto più facile a dirsi che a farsi… concordo quindi sulle tue osservazioni sul rischio di irrigidimento e istituzionalizzazione delle comunità, evitabile solo con un approfondito lavoro con l’equipe terapeutica.
Grazie per questa possibilità di confronto su temi così importanti
Ciao Giuseppe, certo, la mia voleva essere una riflessione a proposito dei rischi, non una denuncia diretta. Mi è tuttavia capitato di osservare, specialmente appunto nei contesti chiusi (in cui si creano degli ecosistemi sociali con tutte la varie parti di un sistema sociale fatto e finito -autorità, “upper-class”, “middle-class”, “lower-class”, etc), il rischio che, come nel famoso esperimento, coloro che “devono interpretare il ruolo dell’autorità”, vi aderiscano in toto, senza mantenere una distanza critica (che come tu sottolinei dovrebbe far sì che l’operatore di per sè, per primo, si metta un po’ in discussione). Mi riservo in ogno caso, magari in un prossimo articolo, di chiarire meglio la questione o di approfondirla ulteriormente. Il punto centrale è la gestione del potere, di fatto, nella psichiatria territoriale. Grazie!