Continua il nostro tentativo di integrazione tra diverse pratiche psicoterapeutiche dando inizio oggi ad una nuova rubrica dedicata al significato dell’esperienza soggettiva, intitolata Costruttivismo fenomenologico.
Il nostro blog nasce come spazio di riflessione e divulgazione di quella che ci piace definire “scienza dell’esperienza“, e negli anni stiamo sempre più accorgendoci che per coltivare e conseguire questo proposito la chiave di volta sta nell’integrazione dei diversi punti di vista che le scienze psicologiche hanno su sé stesse (aspetti epistemologici) e sull’uomo (aspetti antropologici). Ovviamente abbiamo scelto di navigare in questa direzione non alla mercé dei venti, ma tenendo saldo il timone verso la nostra stella guida, che è l’attenzione alla soggettività e ai suoi innumerevoli modi di manifestarsi. Integrare, secondo PsicoFen, non significa includere tutto quello che c’è sulla piazza per la presenza di similitudini e collegamenti forzati, tutt’altro; integrare significa prendersi il tempo per capire come mai la psicoterapia è l’unica scienza che ha prodotto centinaia di modelli d’intervento e se davvero valga o meno la pena di cercare quelle invarianti che fanno di una teoria e di una pratica clinica quegli aspetti nucleari grazie alle quali le discipline psicologiche possono offrire la miglior versione di sé stesse, attraverso quel sottile e fondamentale equilibrio tra parsimonia e complessità. Le fondamenta a cui ci riferiamo si articolano sull’irriducibilità dell’esperienza in prima persona, sul dato incontrovertibile che questa esperienza emerge da un corpo vivo, e sulla sua inscindibile natura interpersonale. In questa direzione si sono mossi molti studiosi negli anni passati, ognuno dei quali si è però arenato su un singolo aspetto dell’esperienza, chi sui comportamenti, qualcun altro sui pensieri e/o le emozioni, altri sul corpo. L’errore è stato quello di smettere di inseguire lo sforzo integrativo, aumentando senz’altro la parsimonia del modello, rinunciando però alla complessità e quindi alla portata esplicativa di fenomeni che modelli troppo semplicistici non riusciranno mai a carpire. Tuttavia, uno degli autori che si sta riscoprendo negli ultimi anni e verso cui ci sentiamo di muovere un’unica critica, ovvero quella di aver sviluppato poco la componente corporea dell’esperienza (ma di questo ne parleremo in un altro lavoro teorico che stiamo preparando) è Vittorio Guidano, padre fondatore della corrente post-razionalista della psicoterapia cognitiva. Perché lo riteniamo utile al nostro discorso integrativo? Innanzitutto, perché è un maestro di scrittura. Chiunque abbia letto anche solo una pagina dei suoi numerosi scritti ha ben chiaro quanto sia illuminante il suo pensiero e il suo modo di esplicitarlo, chiaro e rigoroso. In secondo luogo ci ha lasciato in eredità una metodologia clinica fortemente centrata sull’esperienza soggettiva del paziente, mai sovrascritta o mis-interpretata dalla teoria del terapeuta, e sulla sua natura dialogica e conversazionale. Ci stiamo riferendo alla tecnica della moviola, ed è proprio a partire da questa pratica che abbiamo scelto di dare vita a questa nuova rubrica, grazie al contributo portentoso di Silvio Lenzi, Direttore della Scuola Bolognese di Psicoterapia Cognitiva e allievo di Guidano. Nel 2010, poco dopo la scomparsa di Vittorio Guidano, insieme al collega Fabrizio Bercelli, Silvio Lenzi scrive un’opera incentrata sulla tecnica della moviola, muovendosi a cavallo tra premesse teoriche e pratica clinica, ancorando il discorso sui trascritti di sedute ad opera di esperti terapeuti ad orientamento costruttivista. L’opera in questione s’intitola “Parlar di sé con un esperto dei sè”, edito da Eclipsi. Invitiamo i lettori interessati ad un approfondimento sui contenuti che stiamo per presentare alla lettura dell’intero testo di riferimento. Per PsicoFen Lenzi scrive qualche condensazione sull’opera sopracitata, un articolo di oltre venti pagine che per motivi editoriali abbiamo scelto di pubblicare in tre uscite, pur mantenendo quel sottile equilibrio tra parsimonia e complessità di cui parlavamo all’inizio, così articolate:
- Premesse teoriche;
- Pratica clinica e trascritti di seduta;
- Conclusioni.
L’opera sarà accompagnata da un’ulteriore breve introduzione prodotta sempre da Silvio Lenzi, figlia dei ricordi del maestro Vittorio Guidano.
Gli scritti che diverranno il corpo di questa nuova rubrica, si articoleranno nell’intersezione tra spiegare e comprendere, pratiche storicamente vittime della improduttiva dicotomia tra scienze della natura e scienze dell’uomo. Paul Ricoeur, introducendo la nozione di “arco ermeneutico”, sostiene che lo scopo delle scienze dell’uomo è volto alla comprensione dell’esperienza degli altri uomini, esperienze che si danno come un testo che una volta prodotto acquista un carattere pubblico e oggettivo, diventando scientificamente affrontabile. La comprensione dell’esperienza soggettiva, usando le parole della prefazione di Giovanni Stanghellini in Parlar di sé con un esperto dei sè:
“si compone di due fasi: spiegare ed interpretare. Spiegare equivale a portare allo scoperto la natura del discorso, la sua dimensione semiologica. All’interno di questa cornice epistemologica, la cura non si indirizza a ciò che sta dietro i fenomeni della coscienza, bensì a ciò che sta dentro l’esperienza soggettiva: alle sue pieghe (Deleuze 1988). Il fine è il dispiegamento dei fenomeni così come si danno alla coscienza in prima persona e la cura non prende la direzione della profondità, di ciò che sta sotto, ma va alla ricerca di una visione d’insieme sui fenomeni della coscienza, di una visione panoramica (Wittgenstein 1967), tramite la quale cogliere il senso nella rete di rapporti e di rimandi tra i fenomeni stessi resi evidenti da una prospettiva dell’altro. Come lo spiegare è indirizzato alla dimensione semiologica, l’interpretare è indirizzato alla dimensione semantica del discorso dell’altro, al suo significato. Interpretare è appropriarsi del modo in cui il discorso dell’altro si attualizza in noi stessi, un’attualizzazione consapevole ed in quanto tale è enunciata come una proposta che aggiunge significato al discorso dell’altro, senza sostituirsi ad esso. La cura non usa l’interpretazione come strumento di sovrascrittura di significato, bensì come appropriazione ed intercettamento in un rapporto di circolarità e reciprocità che ha come obiettivo la co-costruzione di narrative condivise.”
Consapevoli delle difficoltà che ci attenderanno in questa ulteriore opera integrativa e certi della solidità del terreno da cui partiamo, ci auguriamo di offrirvi una visione nuova e aggiornata sulla coscienza, sulle sue manifestazioni patologiche e sulle buone pratiche per affrontarle, e ci attendiamo come sempre i vostri preziosi feedback e contributi nell’ottica di perseguire quella co-costruzione di narrative condivise, nostro punto di partenza e d’arrivo.