Interferenze catastrofali e mutamento
Gli autori dell’articolo sono Francesco Grieco (psicoterapeuta, dirigente medico ASL Salerno, ricercatore e didatta della Scuola Sperimentale per la Formazione alla Psicoterapia e alla Ricerca nel Campo delle Scienze Umane Applicate dell’ASL Napoli 1 Centro) ed Edoardo Vivard (psicoterapeuta, ricercatore e didatta della Scuola Sperimentale per la Formazione alla Psicoterapia e alla Ricerca nel Campo delle Scienze Umane Applicate dell’ASL Napoli 1 Centro, di cui è co-fondatore)
È piuttosto comune per un terapeuta della “psiche” venire a contatto con un tipo di paziente con un tratto particolare. Si tratta di qualcuno la cui organizzazione dell’esistenza ha subito una rottura imprevista, uno smottamento improvviso che lascia un po’ di macerie e qualche struttura decontestualizzata e difficile da rifunzionalizzare, laddove in precedenza era rilevabile un certo ordine e un certo allestimento scenico del proprio paesaggio mentale. Sono eventi a diverso titolo traumatici, che incrinano un assetto più o meno disfunzionale, o anche discretamente compensato, e che possono consistere in lutti, incidenti, abbandoni. Il risultato comune di tutte queste situazioni è che l’essere-nel-mondo del paziente ne viene profondamente alterato, crollano i confini, i puntelli, i significati all’interno della geografia mentale del malcapitato, il quale d’improvviso perde i punti di riferimento che avevano costellato un’intera esperienza della vita.
Prendiamo, a mo’ d’esempio, il caso di Costantino. Appena trentenne perde il padre – un riferimento costante per il giovane fin dall’infanzia – sul quale aveva modellato quel suo universo attraverso cui poteva imbastire la propria specifica tessitura esistenziale. Si trattava di un’epica egoica della volontà, la creazione di una compattezza identitaria tipica di quelle personalità che si è soliti definire “a tutto tondo”, un po’ come nella statuaria. Il che comportava una concezione agonistica della vita nelle aree più diverse, un timore di influenzamento nelle relazioni, in particolare in quelle intime, nelle quali una fantasia di contaminazione (l’alterità come portatrice di istanze diverse da quelle del soggetto, potenzialmente capaci di far deviare dalla traiettoria stabilita) impediva una realizzazione affettiva adeguata. La scomparsa del genitore determina un’implosione di tutta l’organizzazione psichica e quel mondo abitato con forte partecipazione e narcisistico compiacimento diventa una landa desolata, perde senso fino al punto che ogni aspetto dotato per lui di estremo fascino si tramuta in presenze angosciose, indifferenti e fastidiose. Come il protagonista de La nausea(Sartre, 2014), tutto è “di troppo”, le cose sembrano divenute intollerabilmente pesanti, invadenti, soffocanti. Novello Roquentin, il nostro sente che l’aria è divenuta rarefatta e irrespirabile, che dappertutto domina la tinteggiatura offerta dai colori equivoci dell’insensato.
Abbiamo ripreso da Sergio Piro l’idea di interferenza catastrofale, connotandola come elemento indicatore di un evento drammatico che si incunea a un certo punto nel cammino di una singolarità, modificandone il “destino”, benché in realtà essa assumesse nel pensiero dell’indimenticato psichiatra una valenza specifica, come vedremo in seguito. Un evento traumatico determina dunque il crollo dei riferimenti su cui poggiava una certa visione del mondo, interferisce, appunto, in maniera scomposta e massiccia, terremotando gli schemi psichici di un soggetto e palesando una condizione di straniamento, di perplesso sradicamento. La ricostruzione di un mondo a partire dalle macerie non è agevole, poiché è stato manomesso il principio organizzatore da cui si dipartivano le linee prospettiche che ne sviluppavano il disegno. Risalire a questo centro d’irradiazione è compito delicato e laborioso e si rende necessario rintracciare un nuovo nucleo che possa assumere un ruolo-guida nella ricostruzione post-traumatica del paziente.
Martin Heidegger ci propone una traccia di comprensione possibile. Nel noto saggio sull’origine dell’opera d’arte (Heidegger, 1984), viene alla luce il contrasto dinamico tra Mondo e Terra, tra l’Apertura dell’Essere e l’oscurità gravida di sensi impliciti che spinge ai bordi e sostiene la luminosità della significazione emergente. È proprio l’elemento tenebroso, in apparenza perfino fosco, il fattore di permutazione dei mondi. Così siamo indotti a ritenere. E inoltre, se l’Essere si dà nell’Ereignis, nell’Evento, è proprio della natura evenemenziale la possibile iscrizione dell’avvento del nuovo. Il Trauma, oltre che condizione dolorosa, è dunque anche salutare “crisi di crescenza”, almeno in alcune occasioni. Ma come è possibile varcare la Notte per recuperare nell’assenza di luce una sia pur tenue scintilla?
Si è già anticipato come Piro usasse l’espressione “interferenza catastrofale” in un senso particolare. Egli infatti lo mette in relazione con l’incontro duale di singolarità, le quali condividono un “sotto-insieme di eventi comuni” che finiscono per modificare le rispettive traiettorie diacroniche; detto altrimenti: lo svolgersi vitale dell’esistenza. Questo avviene in molti tipi di relazione, ma nel nostro caso ci riferiamo naturalmente al campo della cura. Lo scopo è il “mutamento del patico dolorante”, degli aggregati ideo-affettivo-immaginativi dell’interiorità alonare. Spesso si tratta di un “mutamento pauroso”, di una metanoia trasfigurativa e autotrasformativa (Piro, 1997).
Il mutamento – teniamo ferma questa espressione piuttosto evocativa – appare quasi all’improvviso, un lampo imprevedibile che illumina squarciando le tenebre dell’insensatezza e della sofferenza. Tuttavia essa è il compimento di un lungo lavorio che resta inapparente, sotto soglia. Nella nostra ipotesi, l’obiettivo indicato sembra implicare un lavoro sulle metafore fondamentali, le quali nelle transazioni terapeutiche agiscono i piani eidetici senza esplicitamente nominarli, ma mobilizzando la carica patica implicita nelle immagini. Esse infatti non si limitano a essere semplici rappresentazioni fantasiose o convenzionali, ma al contrario elementi caratterizzati da potenti aspetti emozionali e da una sorta di conoscenza vissuta, attinente al piano pre-riflessivo. Recuperare queste metafore fondanti all’interno della cura è come penetrare heideggerianamente nei recessi più bui della Terra per reperire lo scrigno contenente i tesori del senso nascosto da riportare alla luce e così ricreare la possibilità dell’avvento di un Mondo incipiente.
Sovviene l’immagine di un bambino sulla spiaggia, intento a scavare la sua buca; egli è attratto dall’immergersi via via sempre più in quel vuoto in cui deve sempre più affacciarsi e sporgersi se vuol andare più giù, più dentro. Deve a volte finanche superare una certa inquietudine e introdursi dentro quel vuoto se vuol sopperire alla limitata estensione del suo braccio. E quasi sempre con la materia maneggiata e portata via alla terra nasce poi il desiderio di dare forma e modellare il pieno, l’esteso: nasce la montagnola. È la terra a contenere in sé il materiale per erigere forme, è la terra la grande riserva di tutte le possibilità di edificare pieni, alla terra dovremo sempre ricorrere per ritrovare la possibilità di configurare e riconfigurare opere. Essa, informe, contiene in sé tutte le possibilità di istituirsi in mondi, contiene in sé già tutte le forme. Come quel vuoto-nulla lasciato dalla buca scavata dal bambino che ora è la forma montagna. L’attrazione per l’informe, per il vuoto, pare contenere già in sé il bisogno del pieno, della forma o almeno dell’avvio del processo costitutivo. Questo ricorso naïf a un gioco infantile potrebbe suggerire una ben più densa riflessione; potrebbe a ben vedere delineare una topografia esistenziale, necessitante di una nuova direzione. Perché la crisi di mondo possa aspirare a un suo superamento e affinché un nuovo mondo profili l’essere, occorrerà un’immersione nell’indifferenziata terra, nella sua ricchezza di potenziale e infinita costitutività. Scrive Charbonneau (2007, p. 56): “Le direzioni di senso analizzano la maniera nella quale noi siamo situati nei confronti di questo Tutto”.
Il gioco terapeutico su cui edificare la nuova fondazione parrebbe simile a una rêverie (Bachelard, 1972) nel senso espresso dal filosofo francese di fantasticheria diurna, pur tuttavia essenziale, la cui portata apparentemente irriflessa tende all’origine di ogni significato. Il curante, abbandonandosi ad essa, mette in atto implicitamente la ricerca del senso vissuto, la prefigurazione tacita e un inesausto scuotimento emotivo. Siamo dentro il primato di ciò che Piro definiva “avvertenza pre-tetica”, che sta al di qua della faglia che la separa dall’artefatto della “teticità”, in cui essa “indossa le forme del linguaggio, facendosi lucida e discontinua” (Piro, 1996, p. 9) in seguito alla separazione di conoscenza ed emozione.
Nel racconto clinico prima abbozzato, abbiamo visto come Costantino abbia subito un deragliamento psichico a causa di un evento tragico. La compattezza identitaria e la coerente organizzazione del suo mondo si erano frammentate e si erano rivelate pure costruzioni fittizie, argini difensivi all’angoscia. Il dialogo terapeutico, attraverso le metafore radicali, aveva dato spazio e voce a elementi dissonanti, a disegni melodici inusitati e ad armonie stridenti, ma anche potenzialmente ingravidate da lacerti di senso capaci di porsi a fondamento di una diversa configurazione di essere-nel-mondo, meno eroica e più trasparente, maggiormente in grado di esitare in una leggerezza che non contrasta con l’inevitabile incontro con aspetti “reali”, che alludono al “sentimento tragico della vita”. La cura fenomenologica, come sulla scorta dell’insegnamento di Lorenzo Calvi (2013) amiamo definirla, non è animata da istanze strutturali e processuali forti, né si assesta su recondite architetture di significato predefinite, giacché si limita a navigare a vista, apparentemente senza meta, per scorribande e placidi vagabondaggi. Eppure, fondandosi su strati originari della mente in maniera pre-riflessiva, è capace di indurre quella condizione di grazia dinamizzata che chiamiamo mutamento.
BIBLIOGRAFIA
Calvi L., La coscienza paziente. Esercizi per una cura fenomenologica, Fioriti, Roma, 2013.
Charbonneau G., La situazione esistenziale delle persone isteriche, Fioriti, Roma, 2007.
Bachelard G., (1960), La Poetica della rêverie, Dedalo, Bari, 1972.
Heidegger M., (1959), Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze, 1984.
Piro S., «Turandot e la faglia disastrosa della coscienza tetica», in Rivista delle antropologie trasformazionali, 3, 1996.
Id., Introduzione alle antropologie trasformazionali, La Città del Sole, Napoli, 1997.
Sartre J.P., (1938), La nausea, Einaudi, Torino, 2014.
Gli autori
Francesco Grieco: psicoterapeuta, dirigente medico ASL Salerno, è ricercatore, didatta e docente di Teoria e clinica delle dipendenze patologiche e di Nuove forme della clinica contemporanea della Scuola Sperimentale per la Formazione alla Psicoterapia e alla Ricerca nel Campo delle Scienze Umane Applicate dell’ASL Napoli 1 Centro. Impegnato nella sperimentazione clinica e didattica di una clinica fenomenologica “pura”, non integrata con modelli estrinseci, ha curato la realizzazione di gruppi terapeutici destinati a pazienti affetti da patologie da dipendenza e da disturbi di personalità.
Edoardo Vivard: psicologo, psicoterapeuta, docente, didatta, ricercatore membro del Collegium, organo direttivo della Scuola Sperimentale per la Formazione alla Psicoterapia e alla Ricerca nel Campo delle Scienze Umane Applicate dell’ASL Napoli 1 Centro, di cui è cofondatore e dove insegna Psicologia clinica, Psicodiagnostica e Strutture fondative della Clinica e della Cura Fenomenologica. Formatosi alla Scuola Antropologico-Trasformazionale del Prof. Sergio Piro, è impegnato nella sperimentazione clinica e didattica di un trattamento fenomenologico integrale, oltre che nella ricerca e nello studio delle manifestazioni psicopatologiche legate alle trasformazioni epocali della contemporaneità, all’interno della cosiddetta Nuova clinica.