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Il terapeuta sotto pressione. Riparare le rotture dell’alleanza terapeutica.

Recensione del libro di Muran ed Eubanks, a cura di Carmelo Pacino

“Tu, giovane terapeuta, sbaglierai con i pazienti, entrerai in seduta con tutte le tue emozioni e pensieri problematici e farai errori. Contribuirai, tu giovane terapeuta, al ciclo interpersonale, il deteriorarsi della qualità della relazione dovuto al contributo dell’uno e dell’altro, di paziente e terapeuta. Ma, aggiungevano: questo è inevitabile” (Dimaggio, p. X)

Vergogna, imbarazzo, paura, rabbia e senso di colpa: a volte sono queste le emozioni che colorano l’esperienza del clinico, esperto e/o giovane leva, di fronte ad un paziente e nei confronti del proprio vissuto con lui, soprattutto quando ci si trova in impasse. L’ideale performante e il senso di responsabilità nei confronti dell’Altro spingono i clinici ad essere duri con se stessi, per ciò che provano e che, secondo un giudizio morale interiorizzato, “non dovrebbero provare”. Di fronte all’involontario, però, come possiamo dire “non si deve provare (rabbia, ecc…)”? Per definizione l’involontario, come lo è un’emozione, sfugge al controllo, il quale si limita alla nostra reazione, alla nostra presa di posizione nei confronti di quell’involontario stesso.

Eppure per diversi decenni il modello di neutralità nella relazione terapeutica ha costituito un must della clinica: si pensi, ad esempio, ai dettami di neutralità e astinenza della metapsicologia freudiana. Il passaggio dal modello neutrale a quello partecipativo, innestato nel passaggio dagli approcci monopersonali a quelli bipersonali e relazionali è stato lento, ma rivelatorio. Sottolineo rivelatorio e non rivoluzionario, perché, in realtà, hanno mostrato ciò che già di fatto avveniva nella pratica clinica e che appartiene al vissuto: il clinico è parte fondante ed ineludibile di qualsiasi relazione terapeutica. Clinico con la sua formazione, il suo vissuto, le sue insicurezze, le sue fragilità, le sue emozioni. Insomma, il clinico nella sua umanità.

Ecco, se proprio vogliamo utilizzare delle parole chiave per descrivere il percorso seguito da Muran ed Eubanks, due fra i massimi esperti a livello internazionale di relazione e rottura dell’alleanza terapeutica, in questo libro edito da Raffaello Cortina, una di queste è “umanità”. In tutto il testo, infatti, emerge un approccio alla clinica fondato sul vissuto umano di paziente e terapeuta in un percorso che li vede accanto, fianco a fianco.

Nello specifico, gli autori nel descrivere cosa significhi per un terapeuta essere sotto pressione e nel proporre un approccio che valuti e dia strumenti per riparare le rotture dell’alleanza terapeutica (Rupture Resolution Rating System, 3RS), partono da alcuni presupposti.

Primo, la relazione terapeutica, nelle sue dinamiche e nei suoi obiettivi, è co-costruita e negoziata da paziente e da clinico. Da questo ne discende che l’esperienza del terapeuta è importante quanto quella del paziente, infatti gli autori si concentrano molto nel fornire uno stato dell’arte aggiornato della ricerca sull’influenza dell’esperienza del clinico nel percorso. In altre parole, viene proposta una visione opposta a quella del terapeuta manualizzato, e quindi depersonalizzato. Di fronte ad un terapeuta “manuale-corazzato” (lasciatemi passare l’espressione) chi incontra il paziente? Nel dipanarsi del discorso, mi sembra che gli autori rispondano anche a questa domanda, facendo leva continuamente sulla centralità della relazione in vista del cambiamento terapeutico.

Secondo presupposto importante – che discende, comunque, dal primo: quando parliamo di rottura dell’alleanza terapeutica, il clinico è corresponsabile. Questo è un aspetto etico e metodologico di grande rilevanza: riconoscere il proprio apporto nella rottura dell’alleanza terapeutica è un gesto di responsabilità e segno di autenticità relazionale. Inoltre, la rottura dell’alleanza, oltre ai rischi che porta con sé, potrebbe rappresentare una risorsa. Infatti, affrontare e risolvere una rottura aumenta, così come evidenziano gli autori tramite una review della letteratura, l’efficacia e il beneficio del trattamento, in quanto corrobora l’intesa paziente-terapeuta e disvela aspetti relazionali utili nel processo di consapevolezza.

Terzo presupposto che vorrei evidenziare è il proficuo rapporto che gli autori sono riusciti a sviluppare tra ricerca ed esperienza clinica, tra operazionalizzazione di costrutti e “ritorno alle cose stesse” (gli autori stessi citano Husserl).

Il libro è un ottimo compendio sulla relazione terapeutica e sulle sue rotture basato su una solida ricerca empirica e una lunga esperienza clinica come terapeuti e come supervisori. Questo libro non è rivolto soltanto a giovani clinici che si ritrovano spesso immersi in questo “calderone di emozioni che pongono sfide importanti” (p. 15), ma anche a terapeuti e supervisori esperti non solo perché tutti attraversano momenti in cui si sentono sotto pressione, ma anche perché propone strumenti validati e indicazioni per la formazione e la supervisione.

Nel primo capitolo, visto che si parla di sentirsi sotto pressione, gli autori attingono dalla letteratura della scienza della performance e della capacità di giudizio. Nello specifico, si evidenziano le dinamiche che si configurano in termini di giudizio e capacità decisionali in condizioni di stress, ambiguità e pressione. Anche qui la soggettività del clinico viene posta in primo piano, in quanto la definizione di stress che viene proposta non fa riferimento soltanto allo scarto tra richiesta e abilità, ma anche alla percezione del clinico di questi due aspetti. Inoltre, sotto pressione il clinico è spinto ad una maggiore ristrettezza cognitiva, aderendo in maniera più rigida e pedissequa a protocolli e modelli, con il rischio di reificare il paziente. Dalle euristiche alle emozioni, gli autori sottolineano come la pressione abbia delle conseguenze sulla capacità di attenzione ed individuano nella regolazione emotiva un importante fattore di resilienza nei momenti di pressione e stress, soprattutto quelle strategie come l’accettazione e l’etichettamento dell’emozione, ovvero quelle strategie che aiutano a stare sul processo, sul qui ed ora, aspetto su cui gli autori ritornano spesso, soprattutto nel capitolo 4 in riferimento alla metacomunicazione.

Nel secondo capitolo gli autori si focalizzano sul concetto di rottura dell’alleanza, dandone una definizione e proponendo alcune strategie di riparazione, partendo dalla consapevolezza che la riparazione di una rottura dell’alleanza sia predittiva di buon esito del trattamento. Per capire cosa sia una rottura dell’alleanza, bisogna prima comprendere cosa sia l’alleanza terapeutica. Nel crogiuolo delle definizioni e delle teorie gli autori si servono del modello tripartito di Bordin (1979) secondo cui l’alleanza si compone di a) intesa paziente-terapeuta su obiettivi del trattamento; b) intesa paziente-terapeuta sui compiti del trattamento; c) legame personale-affettivo tra paziente e terapeuta. La rottura riguarda uno o più di queste componenti.

“Una rottura dell’alleanza è un deterioramento dell’alleanza, che si manifesta con una mancanza di collaborazione tra paziente e terapeuta su compiti e obiettivi, o con tensione nel legame emotivo. Occorre notare che la nostra definizione di rottura, legata ai compiti e agli obiettivi, è incentrata sulla mancanza di collaborazione piuttosto che sulla mancanza di intesa, sulla base della nostra esperienza secondo cui non tutte le divergenze tra paziente e terapeuta costituiscono delle rotture. Un paziente può esprimere disaccordo con il terapeuta in modo appropriato e collaborativo, senza dare vita a una rottura” (p.193). Stress nel lavorare con pazienti ad alto rischio, problemi personali, difficoltà nella gestione delle reazioni al paziente (intese in termini controtransferali) sono tutti aspetti che concorrono a produrre rotture nell’alleanza, che contribuiscono, come dicono gli autori, al processo negativo. Vengono enucleate due tipologie di rotture: di confrontazione, in cui il paziente si scontra con il terapeuta e/o la terapia e in cui la rabbia e l’ostilità vengono espresse in modo non collaborativo, generando dinamiche di potere; di ritiro, in cui il paziente si allontana dalla terapia, tramite comportamenti evitanti e atteggiamenti laconici, o si avvicina tradendo la sua reale esperienza (atteggiamento eccessivamente accondiscendente), ostacolando così il reale processo terapeutico[1].

L’approccio di risoluzione offerto dagli autori si basa su un modello di processo elaborato da Safran e Muran (1996) diviso in 4 fasi: 1) riconoscimento da parte del terapeuta della rottura e indirizzamento dell’attenzione del paziente su di essa; 2) esplorazione della rottura con le relative emozioni; 3) poiché la fase precedente può mettere a disagio il paziente, portandolo a strategie di evitamento, in questa fase si esplorano proprio questi tentativi; 4) chiarimento delle esigenze del paziente.

Questo processo è altamente flessibile e tiene conto sia del paziente, inteso come colui che si rivolge ad un professionista per la propria condizione, sia della diade paziente-terapeuta.

L’esplorazione delle rotture è fondamentale in quanto permette anche di focalizzarsi nel qui ed ora sulle esperienze relazionali del paziente – e creare parallelismi con le altre relazioni del paziente. Indipendentemente dalle strategie di risoluzione adottate (immediate o esplorative), un aspetto che ritengo importante ai fini questa recensione è la “saggia titubanza” cui fanno riferimento gli autori: un atteggiamento empatico, positivo e curioso nei confronti del paziente, senza la pretesa di avere le risposte a tutto. Infatti, l’umiltà (che ritorna spesso in tutto il libro) viene vista come uno di quei fattori fondamentali per un buon lavoro clinico.

Nel terzo capitolo l’attenzione è rivolta alle emozioni e agli studi che sono proliferati negli ultimi decenni sull’argomento. Gli autori ne propongono una visione componenziale e strutturata, sottolineando che gli schemi di risposta emotiva si strutturano in un contesto socio-culturale e sono frutto di esperienze che si integrano nel tempo. Nell’affrontare il tema della complessità delle emozioni e della regolazione emotiva, si fa riferimento, secondo la concezione per cui si vive in un mondo di pluralità e mutevolezza, ai concetti di Sé multipli e di schemi del Sé, che comprendono convinzioni e aspettative su di sé e sugli altri, nonché “informazioni procedurali specifiche, riguardanti aspettative e strategie per negoziare esigenze di autodefinizione (agency) e relazionalità (comunione)” (p. 71). Uno degli obiettivi della psicoterapia è vivere e accettare la molteplicità del Sé. Per questo, particolare rilevanza viene attribuita dagli autori al qui ed ora, al lavorare sulla consapevolezza degli stati del Sé, dell’esperienza immediata. Riflettere sul Sé e darne una definizione implicano la definizione del Sé del terapeuta, in quanto la mia visione del mondo può emergere solo nel confronto con una diversa visione del mondo. A tal proposito, gli autori richiamano il modello dialogico di comprensione di Gadamer: “la consapevolezza dei nostri pregiudizi[2] può emergere (ossia, emergere parzialmente) soltanto nel dialogo con l’altro, in cui vi è la possibilità di una ‘fusione di orizzonti’, un momento in cui un pregiudizio può essere distinto dalla sua alternativa. Pertanto, la comprensione diventa un avvenimento, non un oggetto, che evolve da fenomeno statico a fenomeno interattivo o interpersonale” (p.78). Quindi, la visione del lavoro clinico che emerge è quella di un processo “co-” (-negozionato, -costruito, -regolato, ecc) in continuo divenire.

Il capitolo 4 è il naturale sviluppo del precedente. Se la terapia è un processo co-costruito, allora fondamentale per la riparazione delle rottura è non solo la regolazione emotiva del paziente, ma anche quella del terapeuta. Vengono presentati degli esempi clinici – così come in tutti gli altri capitoli – dove si mostra l’importanza della regolazione delle emozioni da parte del terapeuta.

Punto centrale in questo ambito è la nozione di metacomunicazione, intesa come comunicazione sul processo di comunicazione in senso interpersonale, ovvero trattare la comunicazione paziente-terapeuta come un oggetto di indagine collaborativa ed esplorativa. Per chiarire questo concetto possiamo fare riferimento ad alcune domande che il terapeuta può rivolgere al paziente: come si sente in questo momento? Cosa sta avvenendo tra di noi? Secondo lei, come mi sento io in questo istante? Ho l’impressione che lei sia arrabbiato con me in questo momento, mi sbaglio?

Questo scambio deve avvenire, però, sottolineano gli autori, in quell’atteggiamento di saggia titubanza di cui ho accennato poco fa, di genuina incertezza e di apertura, nella consapevolezza della parzialità della propria comprensione.

Come si può ben notare, la metacomunicazione è fortemente legata al qui ed ora della relazione, al sentire di entrambi. Potremmo dire con un linguaggio fenomenologico che si fonda sull’atmosfera patica dell’incontro tra paziente e terapeuta.

“Gli sforzi dei terapeuti dovrebbero essere rivolti all’invitare e indirizzare i pazienti a concentrarsi sulla loro esperienza immediata, e in particolare a richiamare la loro attenzione verso i punti di transizione del proprio vissuto per come emerge nel qui e ora. E’ terapeutico, pertanto, non solo aumentare la consapevolezza retrospettiva del paziente sui modelli intrapersonali o interpersonali, che favoriscono la coscienza del Sé come oggetto, ma anche la sua consapevolezza immediata su come lui è coinvolto in tali modelli, il che implica una maggiore coscienza del Sé come soggetto in relazione al Sé come oggetto. Questo processo comporta l’accrescimento della consapevolezza immediata del Sé di una persona in qualità di attore della propria esperienza e del proprio comportamento, dei processi soggettivi che mediano gli schemi oggettivi” (pp. 94-95).

Il capitolo cinque è una review della letteratura sui vari programmi e modelli di supervisione e formazione del terapeuta. Gli autori presentano poi il loro programma, rivolto a tirocinanti e supervisori, incentrato sull’alleanza (Alliance-focused training, AFT), il quale si fonda fondamentalmente due aspetti: la reattività al processo, ovvero consapevolezza e adattamento al qui ed ora, e autoesplorazione del vissuto. Un aspetto molto interessante del programma (cui si rimanda al testo per un’analisi approfondita) è il fare pratica sotto pressione e in condizioni simulate.

Ad esempio, viene descritta la tecnica delle due sedie in cui il clinico, sotto la guida del supervisore, viene invitato a fare la parte del paziente mentre un collega svolge la parte del terapeuta, permettendo così di apprezzare meglio le esperienze del paziente e per riuscire a guardare il processo sotto diverse angolature.

L’esporsi sotto la guida del supervisore a situazioni di pressione, in base alle capacità del singolo tirocinante, è visto come un buon esercizio per aumentare la capacità di gestire situazioni difficili (qui gli autori fanno riferimento alla Zona di Sviluppo Prossimale di Vygotsky).

L’ultimo capitolo è dedicato all’autocura del terapeuta. Il rischio di burnout per i terapeuti è alto e l’attenzione a se stessi è un principio salutare ed etico.

Il primo suggerimento che gli autori danno è quello di mantenersi umili: non si può raggiungere la comprensione completa del paziente. Potremmo dire che è il riconoscimento dell’alterità dell’Altro. E’ la consapevolezza che l’Altro è simile ma, allo stesso tempo, diverso-da-me. Il suo mondo non è totalmente sovrapponibile al mio. Inoltre, l’umiltà fa qui riferimento all’accettazione della fallibilità di ognuno: si fanno errori, si commettono sbagli. In questa specifica ottica, è l’essere consapevoli della corresponsabilità delle rotture e l’impegno a risolverle. Infine l’umiltà è una barriera contro la nostra sicurezza eccessiva e il nostro narcisismo, contro “la sensazione esasperata che il paziente abbia bisogno di noi” (p. 162).

Un altro suggerimento è quello di coltivare un atteggiamento empatico, aperto e non giudicante verso il paziente. Un autentico e sano interesse nei suoi confronti.

Bisogna anche essere pazienti, soprattutto nei momenti di stagnazione, in cui la smania di uscire da una situazione di immobilità e impotenza ci fa sentire in obbligo di fare qualcosa. Ciò che emerge in tutto il testo è la funzionalità di non guardare solo al contenuto, ma anche al processo, al “come”, oltre che al “cosa”.

Gli autori forniscono anche alcune strategie utili complementari per la formazione, come ad esempio l’uso di tecniche di mindfulness prima di una seduta oppure il diario delle emozioni a fine seduta. Quest’ultimo, infatti, permette una maggiore consapevolezza del processo, in quanto tiene traccia del vissuto del terapeuta in specifici momenti del percorso, evidenziando situazioni che richiedono l’attenzione del terapeuta stesso. In più, facilita l’espressione di sentimenti vissuti negativamente.

L’appendice contiene il sistema della risoluzione delle rotture dell’alleanza terapeutica (Rupture Resolution Rating System, 3RS), messo a punto dagli autori nel corso di anni di esperienza clinica e di ricerca empirica di validazione, usato per la misurazione basata sull’osservatore delle rotture dell’alleanza e dei tentativi riparativi. Lo strumento può essere usato su trascrizioni o su video di sedute e può applicarsi a diverse quantità di materiale clinico (intere sedute o anche segmenti di cinque minuti).

Lo strumento, oltre a presentare una rassegna di tipologie di indicatori di rottura e di strategie di risoluzione, fornisce un sistema di una codifica delle tipologie di rotture che intervengono e dei tentativi di risoluzione. Inoltre, permette di valutare anche la significatività dei tentativi di risoluzione della rottura.

L’essere sotto pressione o, comunque, trovarsi in contesti di impasse, può rappresentare un motivo di forte sfida personale e professionale. Sta di fatto che la pressione, così come emerge nel libro, rappresenta un buon esercizio per mettersi alla prova e per rafforzare la propria formazione, che, in questo mestiere, non è solamente didattica, ma anche (soprattutto?) umana.

Oltre a costituire un valido testo per i terapeuti con un trascorso, credo sia un ottimo spunto di riflessione su tanti temi per i clinici che si affacciano al mondo della clinica. Primo tra tutti la consapevolezza che bisogna anche “arrendersi”, ovvero rinunciare a una presupposta perfezione da raggiungere che non fa altro che alimentare posizioni ipertecniciste che depauperano l’esperienza di chi abbiamo di fronte o che innescano lotte di potere “dominatore-sottomesso”. In secondo luogo, riconoscere che il clinico è nella relazione, con tutto se stesso, per cui è importante prendersi anche cura di se stessi.

Nello spazio clinico, in questo luogo denso e intenso ci sono due mondi-della-vita che si incontrano e in quell’incontro decidono di farsi viandanti insieme: ci sono entrambi, che lo si voglia o meno.


[1] Come si può ben notare, gli indici di rottura sono costituiti da atteggiamenti e comportamenti del paziente. Gli autori diranno espressamente che il loro lavoro mira a rendere il loro modello più conforme al presupposto di corresponsabilità nella rottura (cfr. p.186).

[2] Intesi come schemi del Sé.

Carmelo Pacino

Dottore magistrale in Psicologia Clinico-Dinamica all’Università degli Studi di Padova. Allievo della Scuola di Psicoterapia Fenomenologico-Dinamica di Firenze. Si interessa di fenomenologia dell’incontro e del dialogo tra fenomenologia e psicologia dinamica; Socio dell’Associazione Italiana di Psicologia Fenomenologica.

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