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Melancholia (Lars Von Trier)

Il film si apre con il viso di Justine in primo piano, plastico, asfittico, annichilente, privo di anima che ci guarda attraverso quello che è uno schermo ma potrebbe facilmente essere uno specchio. Sembra richiamarti all’attenzione, sembra dirti che il confine è più sottile di quanto ci piaccia credere. In questo breve prologo compaiono una serie di immagini che si muovono in maniera impercettibile ma non è un semplice effetto rallentatore perché dei singoli movimenti rimangono delle tracce come a volerci dire che lo scorrere del tempo non si dà senza strascichi, non si esplica senza il dolore e che ci siamo invischiati dentro senza possibilità di fuga. I nostri movimenti, che ai nostri occhi pigri sembrano così determinati, netti e sottili, sono in realtà un continuo susseguirsi di piccoli istanti ognuno adeso al precedente.

Da questo punto in poi il film si divide in due parti denominate come le due sorelle del film: “Justine” e “Claire”.

Justine

Veniamo catapultati al ricevimento per il matrimonio di Justine ma quello che non si percepisce subito è che il matrimonio è diviso in due parti. Nella prima parte Justine riesce a mantenere una felicità che allo spettatore non appare affatto fasulla e non sapremo mai se perché è ben recitata o perché autentica. Nella prima scena, con la limousine degli sposi bloccata su di una curva troppo stretta, viene fuori una Justine innamorata, felice, spensierata e forse talmente felice che questo imprevisto la diverte invece che irretirla. Gli sposi arrivano alla festa a piedi e ridono di gusto in faccia a Claire che è preoccupata per la tabella di marcia. I rapporti tra tutti i membri della famiglia sembrano ottimali e anche il capo di Justine sembra vederla non solo dal punto di vista lavorativo ma che la stima come persona prima di tutto. Qualcosa però non sta funzionando, forse ci torna alla mente il viso di Justine che apre il film ed il suo messaggio narrato con un filo di voce, forse ognuno nota in questi primi momenti un dettaglio che gli fa presagire la presenza di un velo che copre gli invitati seduti al tavolo, forse che inconsciamente ci risuona con quello che ci copre nella placida vita quotidiana, un velo di ipocrisia e rancore, una seta sottile che non può durare. In questa atmosfera arriva il discorso della madre di Justine, la sua figura austera e spregiudicata si innalza sopra la coltre di nubi e con gelida indifferenza squarcia il velo, frantuma lo specchio e ci trascina nella seconda parte della festa. È come se Melancholia (che Justine vede poco prima di entrare in villa scambiandolo per Antares) fosse sorto all’orizzonte in quel momento e la sua atmosfera strappasse via l’ossigeno ai nostri alveoli. Dopo le parole della madre non c’è più speranza, non c’è più niente da festeggiare e non c’è più possibilità di redenzione per nessuno. Justine precipita in un abisso ed è come se, da quel momento, guardasse la festa da sotto un lago ghiacciato, tutto appare appannato, opaco, freddo e distaccato. Il suo viso diventa plastico, ogni espressione sembra l’ombra della precedente. Sotto quella pelle cerea c’è un magma rovente che si palesa nei suoi comportamenti provocatori come ad esempio urinare nel prato con il vestito da sposa ancora indosso, addormentarsi e cercare in tutte le maniere di distaccarsi da quello spazio-tempo che, privato della melliflua apparenza, è divenuto stretto e soffocante. In tutto questo non abbiamo ancora parlato del marito di Justine, Michael. Lui recita in quest’opera la parte dell’agnello sacrificale, di quello che nasce e vive per essere sgozzato e dilaniato da forze più grandi di lui affinché ci sia fertilità sulla terra. È lì, fisicamente, ma non ha percepisce del contesto psicologico che gli gravita attorno. Justine lo divora un pezzo per volta durante tutto il film, un morso alla volta. Michael è innamorato di lei ma forse non vede oltre il tenue azzurro dei suoi occhi, non vede la disperazione che la serra all’angolo e costretta a graffiare per farsi spazio. Quando, dopo averlo sedotto, abbandona la foto del frutteto, sul divano è come se avesse dato l’ultimo morso al corpo di lui ormai agonizzante ed il suo “addio” è una sentenza di morte.

Ormai tutto è coperto di luce e tutto brilla nell’accecante realtà di una terra che “è cattiva”. Anche il capo di Justine a questo punto può togliere la maschera mostrando il vero volto ovvero quello di una persona che sta approfittando senza remore della sua sofferenza per trarre il maggior profitto possibile. Si sta nutrendo delle brillanti gocce di bile nera che scorrono lungo le gambe di Justine senza curarsi di quanto dolore si nasconda dietro ognuna di loro. Il suo gioco ha retto a lungo ma Justine ha la gola arsa e lo stomaco che urla perciò lo sbeffeggia pubblicamente e poi lo umilia scopandosi il segugio che lui le mette alle costole. Non è sesso, è uno stupro a tutti gli effetti, è uno sfregio privo di scrupoli. Justine sembra dire al suo capo che, non solo il suo segugio non è in grado di controllarla, ma è lei che controlla lui. Mentre lo cavalca gli tiene ferma la testa con una mano a mo’ di artiglio, come a sottometterlo, ad ucciderlo, ad annientarlo.

Dal discorso della madre in avanti tutto tende al caos e Justine porta avanti la sua personale distruzione della terra con dedizione e costanza. Da questo punto di vista si può vedere un parallelismo tra la prima la seconda parte del film, infatti, in entrambe il mondo tende alla distruzione ma nella prima parte il mondo in questione è quello di Justine. Potremmo pensare, in linea con quello che dice anche lei, che le sue azioni siano metaforicamente dei tagli che staccano i “fili di lana grigi” che le si attaccano addosso. Justine sta forse solo cercando di liberarsi dalle sovrastrutture che opprimono e costringono la sua anima.

Claire

In questa parte Justine è completamente immersa nella bile nera, è abbandonata a sé stessa e Claire si prende cura di lei, svolgendo quello che forse è sempre stato il suo ruolo. Il tentativo di cura di Claire si svolge in contemporanea con l’inquietante danza che il pianeta Melancholia compie attorno alla terra. Un balletto fatto di avvicinamenti ed allontanamenti che pare dispiegarsi in una macabra armonia con le cadute e le risalite dell’umore di Justine, mai del tutto in piedi e mai del tutto distesa. Claire, in linea con il marito, è l’immagine delle sovrastrutture che Justine rifiuta e disprezza non per propria volontà ma perché sembra non poter fare altrimenti. Potrebbe, da alcuni punti di vista, essere un’appendice della figura materna così poco incline al comune sentire e brusca nell’approccio alla vita. Non è un caso che la madre, nella prima parte del film, parlando con Justine, esprima tutto il suo disappunto per la vita che Claire sta conducendo, una vita troppo superficiale e stupida. Claire, nella sua forse solo apparente semplicità e dedizione verso la vita, rappresenta in questa parte una sorta di barometro emozionale che misura attraverso la sua ansia la distanza di Melancholia. Reagisce, infatti, in maniera sottile ed estremamente sensibile alle fluttuazioni del pianeta anche attraverso il marito che cerca di prevedere il futuro della terra. Il marito di Claire, infatti, è il burattinaio che da dietro le quinte regola le condotte dell’intera famiglia tramite fili fatti di studi e previsioni.

Mentre Claire continua la sua “terapia” su Justine con risultati altalenanti, Justine comincia a sentire empaticamente la vicinanza del pianeta, come se fosse un’anima, uno spirito amichevole che viene in suo soccorso. Si specchia nei suoi raggi luminosi, si tempra e prende energia da essi, si denuda sotto la sua luce blu, asettica e funerea. Affogata nella sua aurea Justine sorride in maniera sincera e ritrova in questa sintonizzazione empatica con l’ingenua malvagità di Melancholia la sua essenza perduta, la sua anima sgretolata sotto un mondo che non riesce ad accettare il suo silenzio. Melancholia finalmente la riconosce, la illumina, la riscalda internamente con la sua tenue comprensione. Una comprensione che Justine forse non ha mai provato prima. Il pianeta è un medico che guarda un paziente colmo di sofferenza, che vive solo per inerzia, che non ha più scopo e senso e, inondato da un amore inusuale, pratica l’eutanasia, fa quell’iniezione che cancella il dolore. Justine vede tutto questo quando sorridendo dice a Claire “la terra è cattiva, non dobbiamo addolorarci per lei”. Claire da parte sua non riesce a comprendere la sorella, la osserva e prova rabbia per la sua perversa rassegnazione e perché per la prima volta è Claire ad non essere sintonizzata, a non essere in asse. In questa fase è Justine che diventa la “zietta spaccasassi”, come la chiama il nipotino, è lei che tiene le redini nella tempesta. Il marito di Claire, infatti, troppo attaccato alla scienza, troppo ansioso di prevedere il futuro, crolla davanti all’ineluttabile in una resa drastica e violenta. Si uccide perché non ha le risorse per affrontare la fine, non ha le risorse per accettare che l’uomo sia impotente di fronte all’entropia che governa l’universo. Lui osserva Melancholia con il telescopio, la ammira e la venera come un meraviglioso corpo celeste fino a che il pianeta non mette in disparte il suo aspetto estetico e lo trafigge facendogli percepire in un attimo tutta la sua energia annichilente, un’emozione troppo intensa da reggere. Quando Claire lo trova disteso in mezzo alla paglia della stalla non ha reazioni, come se lo sapesse già, come se anche lei inizi ad arrendersi all’inevitabile. Il castello, la grotta che Justine costruisce per “difendere” il piccolo nipotino dall’impatto è di un calore inaudito, ci viene quasi da pensare che essa possa davvero fermare l’esplosione. Nell’ultimo istante prima della fine Claire e Justine sono sedute di fronte in quella che sembra un’immagine speculare l’una dell’altra, Claire piange in silenzio mentre Justine sorride forse perché sa che sopravviverà, in qualche modo, nonostante tutto.

In questo testo la parola Justine ricorre molte volte, non è casuale, l’idea che voglio dare è che l’identità di Justine permea tutto lo scorrere del film, è un’identità diffusa e proiettata in pezzi su tutte le persone che le stanno attorno.

Valerio Camela

Psichiatra e psicoterapeuta, specializzato presso la Scuola di Psicoterapia Fenomenologico-Dinamica di Firenze. Lavora attualmente in Svizzera

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