“La vita umana che consiste nelle azioni non è già pensabile “biologicamente”; non si può nemmeno dare ragione di essa, nella sua esistenza concreta – ma soltanto circa le strutture che la rendono possibile come sviluppo della pienezza dell’essere personale, dal punto di vista di un’antropologia universale.” [Francisco Canals Vidal, 1987, pp. 616-617]
Con queste parole il filosofo e accademico spagnolo Francisco Canals Vidal (1922 – 2009) intende presentare con estrema chiarezza una questione fondamentale che interessa tutti coloro che nella propria vita professionale hanno a che fare con uno degli oggetti di studio più complessi e sorprendenti: l’essere umano. Non mi riferisco solo ai filosofi o ai professionisti della salute mentale, ma anche ai medici, poiché la riflessione sul tema centrale di questo articolo, ossia la cura, assume un’importanza trasversale, a priori rispetto alle differenza tra le singole discipline. Insomma, ha una priorità ontologica.
La filosofia ci ha insegnato che se vogliamo comprendere la vera natura di ciò che stiamo studiando dobbiamo porci delle domande ben precise e specificare altrettanto accuratamente il punto di vista che stiamo adottando. È chiaro che interrogarsi sulla natura dell’essere umano significa (anche, ma non solo) chiedersi quali siano le strutture ontologiche che rendono l’uomo ciò che è[1].
Nel presente articolo si cercherà di riflettere su una di queste in particolare, la cura, cercando non solo di farne emergere il significato attraverso le riflessioni di Heidegger[2], ma provando a declinare questo tema nel dibattito scientifico attuale che vede apparentemente contrapposti due paradigmi fondamentali: quello medico e quello psicologico.
Secondo Heidegger (1927) la cura è un tratto ontologico fondamentale dell’Esserci che compete alla sua particolare natura di “projezione dejetta” e che disvela anche la modalità con cui l’uomo è consegnato al mondo: in altri termini, ogni uomo assume la propria esistenza avendone cura, dimostrando di essere un Esserci al quale importa del proprio essere (Heidegger, 1927; Mortari, 2017). Prendersi cura del proprio essere pro-gettati in un mondo è prerogativa dell’essere umano, che è costantemente chiamato a rispondere del suo essere oltre-da-sé, sempre in divenire e sempre interpellato da ben precise possibilità di azione.
Prendersi cura della propria esistenza significa dunque rispondere a queste possibilità e cercare di dare una forma alla domanda “Chi sono io?”, pur sapendo che siamo Esserci in continua trasformazione. Per questo motivo, la cura indica in ultima analisi la determinazione unitaria dell’uomo e allude, senza ombra di dubbio, alla dimensione della temporalità che rende vitale la natura dell’Esserci[3] (Costa, 2015).
Uno degli aspetti fondamentali della cura è la sua struttura: infatti, esistendo noi in un mondo e quindi essendo non solo presso le cose ma anche presso gli altri, la cura assume un carattere di reciprocità e di relazione che fa di noi dei Con-Esserci, quasi sempre ingaggiati in progetti e piani condivisi.
Da quest’ultima riflessione emerge un aspetto fondamentale, che ogni professionista sanitario ha l’obbligo morale di tenerlo sempre ben presente: la cura è anche relazione; essa, così come noi professionisti sanitari la intendiamo, accade sempre in una relazione. Essere in una relazione che cura significa condividere gli obiettivi della terapia e di un percorso che specialista e paziente affronteranno insieme, ognuno con le responsabilità che rispettivamente spettano. Questo aspetto non va assolutamente sottovalutato, poiché da un punto di vista fenomenologico significa dire che i due poli della cura condividono una specifica apertura di mondo in cui l’orizzonte di attesa è quello, appunto, della cura, del benessere (Costa, 2019). Non solo: dato che la cura è anche reciprocità, per il clinico è necessario fare un passo indietro per comprendere nel modo più accurato possibile in quale orizzonte di senso si trovi il paziente nel momento in cui chiede aiuto, sia che si stia parlando di malattia mentale o fisica.
Ma senza sapere quale mondo si trova ad abitare il paziente in quel momento della sua vita com’è possibile costruire e progettare un cammino condiviso? Come possiamo sapere se il paziente accetterà di percorrere questa strada insieme a noi? Come sostiene Costa (2019, p. 124):
“Incontrare un malato significa allora, in primo luogo, incontrare un essere che, come me, ha una comprensione dell’insieme dei rimandi pratici che costituiscono un mondo, dunque che è capace di comprendere che cosa significa che la malattia sottrae certe possibilità di esistenza, che sconvolge progetti, che con essa si altera l’intero orizzonte di possibilità, per cui comprendere il malato significa comprendere il mondo in cui la malattia lo getta”
Comprendere il malato significa dunque comprendere come si modifica il suo essere nel mondo, a partire dall’orizzonte delle sue possibilità, dal rapporto con gli altri e dal suo rapporto con l’avvenire e con il suo aver-da-essere.
Arrivati a questo punto, non avremmo colto fino in fondo l’insegnamento dei fenomenologi della carne se non scomodassimo una questione di vitale importanza: in tutti questi discorsi, dove si colloca il corpo del malato? In altri termini, il paziente che abbiamo di fronte è posizionato in uno specifico orizzonte di senso e lo è a partire dal proprio corpo, da come lui si sente (o come non si sente), dal modo in cui la malattia modifica il suo essere corporeo.
Per comprendere il ruolo del corpo nell’orizzonte di senso generato dalla malattia è necessario analizzare su quali basi ontologiche si sia installata e successivamente sviluppata la medicina moderna[4]. Essa nasce delimitando il proprio oggetto di studio a partire dal corpo-morto, dal cadavere che può essere sezionato e studiato nel suo essere morboso (Costa, 2019): la medicina moderna sostanzialmente indaga le patologie unendo la storia clinica del paziente e le analisi anatomiche, per trovare correlazioni o differenze tra i sintomi e i segni. Il privilegio accordato al corpo-morto presuppone implicitamente l’analogia corpo-macchina, ossia un corpo-cosa che, a causa di una determinata patologia, devia dal suo “normale” funzionamento.
Se il corpo è una macchina, ne consegue che il mondo agisce su di esso solo attraverso cause di ordine fisico e questa posizione esclude totalmente dall’analisi clinica il mondo di significati e di sfumature emotive abitato dal paziente, la cui traccia rimane indelebile nel corpo della persona. Il corpo abita un mondo ricco di possibilità di azione, alcune appetibili altre meno, ma che comunque interpellano la dimensione corporea attivandola, rendendola e rendendoci vivi. Pertanto, il corpo nella relazione di cura “deve essere pensato a partire dal movimento dell’esistenza” (Costa 2019, p. 35): i corpi vivi non sono posizionabili da terze parti, come invece gli enti o i corpi fisici; essi si posizionano, vivono, abitano un mondo e un tempo che è solo loro assieme ad altri con-Esserci. Riposizionando le nostre riflessioni rispetto al paradigma del corpo-vivo e socialmente costruito, diventa necessario ripensare i percorsi di cura e di riabilitazione che devono necessariamente tener conto del nostro essere (anche) un corpo in un mondo. Un corpo ed una esistenza, oltretutto, continuamente ri-narrati e ri-raccontati alla luce delle esperienze che ci accadono: in quest’ottica, non è forse necessario considerare la malattia come un accadimento esistenziale che costringe il paziente a narrarsi in modo diverso, a ricostruire la propria identità?
Una cura narrativa oltre che “biologica” ha lo scopo preciso di aiutare il malato ad entrare in sintonia con il movimento della propria esistenza, ritrovando il proprio posto nel mondo e, soprattutto, restituendo un senso di abitabilità che comincia innanzitutto con il sentirsi un corpo nuovo in un mondo “diverso” (Costa, 2019; Costa, 2015). Pensiamo per esempio ad un paziente post-stroke che a causa della patologia riporta problemi motori: come cambia il suo sentirsi-corpo-nel-mondo? In quale nuovo orizzonte di senso la malattia getta la persona? È chiaro che nella disabilità post-stroke la persona non si senta più bene all’interno della sua esistenza, in cui il deficit motorio non solo comporta un residuo permanente a livello fisico ma determina anche una chiusura di una serie di possibilità stesse iscritte nel corpo e costitutive dell’identità personale. Questo aspetto non sarebbe colto se applicassimo nel percorso di cura il paradigma (e dunque l’ontologia) del corpo-macchina: probabilmente, proporremmo al paziente un percorso di fisioterapia o lavoreremmo in modo specifico rispetto alla sua disabilità, ma come interveniamo per far sì che lui possa tornare a sentirsi a casa nel proprio mondo? E, soprattutto, a quali condizioni lui può effettivamente ritrovare quel senso di abitabilità che generalmente è un aspetto ovvio e pre-riflessivo?
Le professioni e le strutture sanitarie falliscono nel momento in cui intendono la cura e la neuroriabilitazione solo ed esclusivamente come un intervento tecnico volto ad aggiustare senza curare. Ritornando ad Heidegger, curare significa in qualche modo dare una direzione ed un senso alla propria esistenza e in questa situazione non si tratta solo di ri-progettarsi a partire da nuove possibilità di azione ma è necessario, soprattutto, aiutare il malato ad utilizzare il racconto per ri-vivere e ri-scrivere ciò che è accaduto, ri-configurandolo all’interno della propria storia di vita.
Concludendo, riporto una citazione da Costa (2019, p. 158):
“[…]nel dolore e nella sofferenza si modifica l’esperienza del corpo e il sentirsi in esso: esso ora sta incollato come un’ombra da cui non si può fuggire e una prigione da cui non si può evadere[…].”
La relazione che cura, sia essa medica o psicologica, deve cogliere questa sofferenza e l’orizzonte in cui il paziente è improvvisamente gettato e deve fornire degli strumenti che ri-orientino e ri-posizionino il malato e lo aiutino a riscrivere la propria storia.
[1] Un “chi” e non una “cosa”. Per approfondimenti si consulti Liccione (2019) e Vanzago (2009). [2] Si precisa che Heidegger non è l’unico pensatore che si è occupato di questo tema. In generale, è un concetto molto discusso a partire dal Novecento ma si ritrovano delle tracce anche nella filosofia pre-aristotelica con Socrate. Per approfondimenti si veda Mortari (2017) e Abbagnano & Fornero (2006). Altrettanto interessante sarebbe esplorare la prospettiva esistenzialista di Sartre, dove il concetto di cura viene inserito in un discorso più ampio che riguarda la responsabilità e la società. [3] Per ampliare l’argomento qui sintetizzato si consulti Costa (2019). [4] Per quanto riguarda la medicina antica e rinascimentale il lettore che intende approfondire può consultare Costa (2019). Per motivi di sintesi in questa sede si partirà direttamente dalla medicina moderna.BIBLIOGRAFIA
Abbagnano, N., Fornero, G. (2006). Il nuovo protagonisti e testi della filosofia. A cura di Giovanni Fornero, Paravia Pearson.
Canals Vidal, F. (1987). Sobre la esencia del conocimiento. Barcelona: PPU.
Costa, V. (2019). Fenomenologia della cura medica. Editrice Morcelliana, Brescia.
Costa, V. (2015). Heidegger. Editrice La Scuola.
Heidegger, M. (1927). Essere e Tempo.
Liccione, D. (2019). Psicoterapia Cognitivo Neuropsicologica. Bollati Boringhieri, Torino.
Mortari, L. (2017). L’essenziale per la vita. Per una filosofia della cura. JMP (1), pp. 36-38.
Sartre, J.P. ().
Vanzago, L. (2009). Breve storia dell’anima. Il Mulino, Bologna.