PsicologiaPsicoterapia fenomenologica

A una Maestra

“Ma se voi volete sapere se piove, come fate?”

Un improvviso silenzio riempì la stanza, per una di quelle domande che in un’aula universitaria suonano come un trabocchetto, la perfetta occasione per stanare l’allocco che risponderà senza pensarci guadagnandosi le risate di un centinaio di persone. Cominciai così a meditare una risposta che penetrasse la logica nascosta nelle parole, come se mi trovassi davanti un rompicapo da risolvere. Non trovando alcun plausibile doppio senso, mi arresi presto a ripercorrere quello che da nativo digitale faccio quando voglio sapere che tempo fa: cercare la risposta sul palmo della mano, illuminato dall’app del meteo con la sua pletora di numeri e icone impeccabili.

“Guardate fuori dalla finestra, no?”

Questa risposta, quando la sentii gracchiare dai decadenti altoparanti dell’aula T3 dell’allora nuovo complesso di edifici padovani, mi spiazzò completamente. Come avevo fatto a non pensarci? Così semplice, così banale, eppure così vera. Tutte le elucubrazioni possibili, tutti i duelli rusticani a colpi d’intelletto, tutto ridicolizzato da una risposta tanto ovvia quanto ineccepibile. Era un modo straordinariamente efficace per mostrarci cosa volesse dire tornare alle cose stesse, fare un passo indietro dagli arzigogoli dell’intelletto e provare a calarsi in ciò che effettivamente viviamo. Presentarci una risposta ovvia, solo per poi problematizzare con noi questa stessa ovvietà. L’ovvio come enigma, non perché la realtà sia coperta da un velo che nasconde la sua essenza, ma perché lo stesso atteggiamento naturale che ci fa costituire essenze e tra le altre cose mi aveva fatto impelagare nella ricerca di una soluzione astrusa costituisce un problema di per sé. Un problema di portata filosofica straordinaria, delineato da un logico prima che filosofo tendenzialmente inavvicinabile, che tuttavia riuscivi a tradurci con la scioltezza che può acquisire solo chi riversa immensa passione in ciò che studia. Ti do del tu, come non mi sarei mai permesso allora, ricalcando ciò che facevi con Husserl, guidandoci tra le pieghe di un pensatore tanto arcigno quanto rivoluzionario, dal sapore sbalorditivo persino in un corso di laurea già impastato di costruttivismi e dialetti psicoanalitici.

“In quali altri corsi avete parlato d’amore?”

In nessuno, ovviamente. L’unico accenno, in un percorso quinquennale pur orientato sul polo dinamico, fu la trascurabile citazione di ormoni e neurotrasmettitori che entrano in gioco in concomitanza con questo bizzarro sentimento. Del sentimento in sé pareva invece non ci fosse nulla da dire, o perlomeno nulla di scientifico. Che cosa sia l’amore, in fondo, è un quesito da folli, poeti o filosofi, talvolta tutti e tre incarnati nella medesima persona. Fu qui che ribaltasti un altro pregiudizio, a partire dalla scelta del nome del corso: “psicologia delle relazioni interpersonali”. Psicologia insomma di quei fatti privati, di quelle traversie che ciascuno dovrebbe imparare a gestirsi in proprio per dedicarsi poi a ciò che conta sul serio, la psicologia scientifica, i disegni di ricerca, le tecniche da imparare e applicare.

“Non è in fondo questo ciò che ci interessa veramente?”

Lo era, lo era per tutti i numerosissimi partecipanti alle tue lezioni, per i tanti che hanno ritrovato nelle tue parole lo slancio per ripensare la psicologia, per ridefinire il suo statuto scientifico e portare l’attenzione a ciò che davvero anima le nostre esistenze: l’amore, la morte, il rapporto con gli altri, il senso del vivere. Temi su cui non è possibile imbastire studi randomizzati ma neanche analisi qualitative, argomenti che fanno palpitare i cuori di chiunque e ancor più di chi si avvicina speranzoso alla psicologia credendo che s’interessi di fatti umani, salvo scoprire tutt’altro. Arrivati al quarto anno, nel mio caso al quinto, non è facile scrostare il disincanto ispessito da anni di riduzionismo neurobiologico, ma anche di aggrovigliati ricami su costrutti seppur significativi e profondi. Tutte ipotesi, talvolta pure illazioni sull’umano, che le tue parole gentili ma radicali riuscivano a spazzare via con una semplicità disarmante. Queste folate d’aria fresca riaprirono il mio cuore alla speranza che la psicologia potesse essere quello che prometteva al mio ingenuo ardore giovanile quando la scelsi.

“Che cos’è la psicologia, se non scienza dell’esperienza?”

Sono queste, infine, le parole che custodisco come le più preziose di quel corso. Parole che ancora riverberano nella mia cassa di risonanza mentale, oggi che muovo i primi passi seriamente professionali tra riduzionismi e incultura psicopatologica, tra la concretezza di criteri operazionalizzabili da un lato e l’evanescenza di discorsi raffinati dall’altro, ritrovandomi circondato da paradigmi a vario titolo vincenti che usano la fenomenologia solo come loro appendice, per alcuni semplice orpello e per altri imprescindibile incipit ma solo di un lavoro che poi richiederà ben altro, perché non può di certo bastare affondare nell’esperienza di noi clinici né tantomeno in quella dei pazienti per giungere a una cura. In questa tua domanda, che ho inciso in me, ritrovo la forza di difendere il valore della fenomenologia come vera empiria, come unica possibilità di immaginare una scienza dell’umano sull’umano. Una domanda, non una risposta o un aforisma, perché così ci invitavi a interrogarci, a mettere in discussione l’ovvio, a ripensare i nostri pregiudizi. Solo domande ho scritto, forse, perché lo considero il miglior omaggio possibile a una Maestra che ha saputo imprimermi addosso così tanto in così poco tempo. Di domande ne avrei ancora molte, ma arrivati qui preferisco accoglierne l’eredità scomoda, quella degli eterni principianti che non perdono mai il gusto di continuare a interrogarsi.

A Maria Armezzani, una Maestra
Un tuo allievo

Riccardo Poggioli

Psicologo e psicoterapeuta in formazione presso la scuola di psicoterapia fenomenologico-dinamica di Firenze, attualmente lavora come libero professionista e come psicologo al SerD di Pordenone.

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