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A che serve un centro di salute mentale?

A che serve un Centro di Salute Mentale? Diciamoci la verità, in molti casi è sostanzialmente una inutile, solitaria zattera per chi, disperato, desolato, senza soldi, non sa più a chi rivolgersi. E, questa nuova massa di disperati – diversa, certo, da quella ottocentesca di barboni, pazzi ed alcolisti – è fatta di gente con lo smartphone, iscritta a Linkedin, abbonata a Netflix. Ma se la disperazione sub-urbana di metà Ottocento si concentrava in un numero comunque ristretto di casi – lasciando considerare la follia come la più maestosa ed evidente crisi del mondo moderno – oggi è la diffusione stessa della follia a rendere maestoso il problema. È come se una fitta, intricata e pervasiva rete di contagio, dell’insoddisfazione, dell’apatia mattutina, della rabbia ormai stanca, dell’età del rischio superato rintanandosi nei profili social, della geografia virtuale delle emozioni – come di un Google Maps emotivo che collega in maniera predefinita emozioni in-vissute – fosse andata a costituire un reticolo sociale fragile. Ed è, quindi, in questo scenario che un CSM viene ad operare. Ma è come se, in molti casi, operasse ancora con uno stile ottocentesco, o al massimo di inizio novecento, prima ancora di Freud e della psicodinamica, di Bleuler e delle schizofrenie, di Jaspers e dell’esperienza soggettiva. Il diritto ad accedere ai servizi pubblici di salute mentale è appannaggio del cosiddetto pazzo, di chi disturba gli altri, di chi si dimena tra le reti dell’inquietudine. E in molti casi la risposta è quella farmacologica: sedare ed addomesticare, come se il malato fosse un cane rabbioso, un animale poco docile. In altri casi, a questa farmacologia sedativa – che, a dir la verità, si accompagna alla tracotanza, che farebbe quasi rima con ignoranza, di quanti si vantano di aver “steso” il paziente, di averlo messo a dormire senza neanche avergli rivolto la parola, di averlo indementito così poi non rompe più la scatole – ecco, a questa farmacopea rabbiosa ed indolente allo stesso tempo – indolente per l’incuria con cui viene praticata – si aggiunge una salute mentale dei servizi. Presupposto di questa salute mentale è lo spacchettamento dei pazienti. O meglio, una sorta di divisione di categoria di pazienti a quattro, cinque stelle. Come nei migliori pacchetti vacanza. Sei psicotico e giovane? Benissimo, pacchetto 5 stelle lusso: psicoterapia, riabilitazione, psichiatra una volta a settimana, infermieri di riferimento, psicoeducazione, volendo anche attestazione di invalidità, inserimento lavorativo e così via. Sei borderline? Pacchetto 4 stelle: terapia di gruppo, riabilitazione ecc. Non rientri in uno di questi pacchetti? Peccato, devi accontentarti della visita dello psichiatra se e quando ha tempo. Vorresti qualcuno che ti ascolti? Ti rechi come un disperato in Pronto Soccorso. Nessuno si occuperà di te, se non lo psichiatra che fa la notte, in genere unico per territori di milioni di abitanti.

 

Il Centro di Salute Mentale, quindi, salvo rare eccezioni, ha oggi un ruolo di contenimento emotivo e comportamentale. Non che non sia, ovviamente, importante gestire queste crisi, ma era questo che si immaginava quando la psichiatria italiana si è costituita come territoriale, di comunità, di prossimità? Si è, in realtà, verificato un cortocircuito pericoloso: da un lato, chi riesce ad affidarsi al privato, trovando – a pagamento – accoglienza ed ascolto. Dall’altro chi, per mancanza di denaro sufficiente o per la gravità del quadro tale da essere rifiutato dal privato stesso, si reca al servizio pubblico. Ed è a questo punto che, in molti casi, inizia questa che possiamo ancora considerare come carriera istituzionale.  A questo punto, infatti, le strade, in genere, sono due: o al paziente viene impostata una terapia farmacologica o non viene accettato in quanto ritenuto non grave. Nel primo caso, se tra il neo-paziente e lo psichiatra c’è un buon rapporto, che è sostanzialmente di sudditanza, il paziente dirà che sta meglio e che la terapia “sta facendo effetto”. Salvo poi ritrovarsi ricoverato quando tutto il non detto, tutta la tensione emotiva spesso alimentata dai farmaci stessi, esplode senza scampo. E lì, dopo il ricovero, la carriera è in genere irreversibile. Nessuno gli abbasserà mai la terapia per paura di ulteriori scompensi e, in pratica, per non avere scocciature. 1-0 per la cronicizzazione.

Se invece rientra nella seconda categoria, quella di chi non ha un disturbo così grave, ma magari si sente crollare delle certezze o inizia a pensare di farla finita – e non ha disponibilità economiche – diciamo che non ha grandi alternative. Deve aspettare di compiere gesti estremi o che finalmente una bella crisi psicopatologica emerga, per essere accettato nel club della salute mentale. Ed a quel punto è di fatto cronicizzato. 2 -0.

L’interesse, dunque, sembra quello di ottenere quadri sempre più gravi, per alimentare l’idea di una incurabilità della follia, dell’inutilità dei tentativi di cura e di ascolto e dell’inevitabilità della cronicizzazione. Secondo un modello neo(?)-kraepeliniano di degenerazione neurocognitiva. Di demenza cerebrale e psicologica. Di impoverimento premeditato della libertà, dell’immaginazione, del desiderio.

In poche parole, il centro di salute mentale è diventato – in molti casi; ci sono poi quelli, pochi, in cui si lavora bene – il centro di se stesso. La psichiatria ha trovato quindi un nuovo baricentro in questa centralità del servizio stesso, piuttosto che della persona. Si applica, il più delle volte, un approccio categoriale alla psicopatologia, farmacologico alla terapia ed assistenziale rispetto ai bisogni: il centro ruota su se stesso e su quel modello ibrido nosografico-burocratico che è venuto a porne i fondamenti.

 

Ma se provassimo a cambiarlo questo modello? Se provassimo ad immaginare un centro di salute mentale come luogo di accoglienza, cura e calore? Cosa potremmo fare se non avessimo il farmaco come primo ed unico target? Se non fossimo costretti ad operare secondo categorie, schemi e percorsi? Se ci perdessimo nel buio dell’incerto che strada troveremmo? Cosa, noi, progetteremmo? Cosa faremmo di noi stessi? È possibile che, per molti pazienti, non c’è neanche la possibilità di raccontare la propria storia? E noi, la nostra storia, ce la ricordiamo?

Ma ci sembra che Franco Basaglia sia partito proprio da questo: dalla centralità dell’esperienza di sofferenza della persona. E nei suoi primi scritti, quelli più direttamente ispirati dalla fenomenologia clinica di Binswanger e Minkowski, il tema centrale è quello dell’incontro tra due persone. Da un lato, il malato, colui che soffre, con la sua presunta carica di incomprensibilità. Dall’altro, il medico, lo psichiatra con la sua autorità. È in questa relazione asimmetrica che inizia ad essere istituita la disfatta della clinica e della cura. Un rapporto di sottomissione, di sudditanza, di lontananza, non può mai essere la base di un’esperienza di cambiamento, di trasformazione e di cura. E, ciò che era davvero rivoluzionario, ciò era considerato valido per tutti i pazienti, abbattendo il muro della incomprensibilità schizofrenica. È soltanto a partire da questa centralità umana che uno spazio di cura poteva essere possibile ed immaginato. Ed, infatti, il passo successivo fu quello di indagare le relazioni tra i vari operatori e tra questi e i pazienti di un’istituzione – in quel caso asilare, manicomiale. E, dunque, la trasformazione dei rapporti era necessaria alla sfida della libertà e della cura: nessuna istituzione può cambiare se non cambiano i rapporti tra le persone che la abitano. Questo ha portato alle esperienze della comunità terapeutica di Gorizia. Quindi, centrale restava la persona, che fosse un paziente o un operatore. Il passo ancora successivo – e questo è quello dalla maggiore radicalità politica – è stato che nessun rapporto poteva essere considerato libero all’interno di un’istituzione totale. E ciò ha ispirato la legge che ha chiuso i manicomi in Italia. Questo processo di liberazione, Basaglia ne era ben consapevole, era un’utopia, ma un’utopia della realtà, era ciò verso cui tendere affinché ciò che si vive possa essere cambiato e migliorato. Sebbene l’anarchia possa talvolta sembrare attraente, l’esperienza di sofferenza richiede infatti una clinica, una clinica – si potrebbe aggiungere- del tutto peculiare: la clinica di chi opera tra il suo necessario sapere e la sua altrettanto necessaria umanità. Ed è quindi soltanto all’interno di questa clinica dell’incontro che un servizio può non diventare un’istituzione, ma orientarsi verso la libertà e la cura. Il problema, e Basaglia l’aveva previsto, è stato che la psichiatria è stata divorata dall’accademia della neurobiologia e della tassonomia. Chi esce, quindi, dalla formazione universitaria, il più delle volte, ha il primo compito di trasformare se stesso. Provare ad essere libero in una istituzione che si vuole libera. Approcciarsi all’incontro clinico proprio come diceva Basaglia: nudo di fronte all’umanità propria e di chi si ha di fronte. E questo, ancora una volta, può essere la base di un servizio che abbia la persona, e non se stesso, al centro.

 

Possiamo concludere con un esempio pratico di quanto abbiamo detto, quello dei cosiddetti “esordi psicotici”, denominazione che di fatto inserisce il paziente in un vortice farmaco-assistenziale tendente alla cronicizzazione. Sarebbe più opportuno, di certo, parlare di manifestazione psicotica, o meglio di crisi psicotica. E infatti il concetto di crisi, nella sua radice etimologica, rimanda alla separazione, al discernimento. Chi vive un’esperienza psicotica vive una drammatica separazione da ciò che si era, vive il vuoto del poter non-essere, l’angoscia del non-più-noto, lo smarrimento dell’esserci nella nebbia dell’indefinito e dell’impersonale. E cosa ne facciamo di questa crisi? La incanaliamo in un “percorso” di cronicizzazione, offrendo come sbocco alla persona in crisi la fuga in una diagnosi? E se prendessimo queste esperienze come possibilità di esistenza autentica? Ludwig Binswanger, nel caso Lola Voss, uno dei suoi magistrali studi sulla schizofrenia, afferma che la psicosi è una rottura della dialettica tra angoscia e fiducia, dialettica che è costitutiva dell’esperienza umana stessa. Sarebbe, quindi, questa modalità del vivere nella non-fiducia nel mondo a lasciare campo libero all’angoscia e a costituire il nucleo della schizofrenia (angoscia che, inevitabilmente, si manifesta con la sofferenza, con il dolore, parole che la psichiatria moderna non pronuncia più). E così, in questi termini, ciò che occorre, autenticamente, a queste persone, divorate dal dramma dell’esistere, non è unicamente la fiducia, ma la possibilità di costituirsi come uomini nella dialettica tra angoscia e fiducia. Offrire soltanto la fiducia sarebbe inautentico, sarebbe un’umanità parziale, uno scartare proprio ciò che, soltanto, è rimasto a chi vive un’esperienza psicotica. Come puoi, tu che rifiuti l’angoscia, accogliere me che ho solo l’angoscia da offrirti? Ed è infatti proprio questa inautenticità – questa “pressione” direbbe Binswanger – ad alienare ancora di più lo psicotico dal mondo reale. E l’inevitabile esito per queste persone è quella che, sempre Binswanger, denomina “mondanizzazione”, questo esistere come cosa, e non più come essere umano, nel mondo. E chi esiste come cosa è esposto all’invasione perenne ed irrefrenabile: tutto è terrore e minaccia, irraggiungibile perchè la cosa non esiste come corpo mobile, inspiegabile perchè la cosa non dà senso ad altre cose. E quindi noi, quando rifiutiamo l’angoscia in nome di una diagnosi o di una fiducia fittizia, sorretta soltanto dalla nostra presunta autenticità e conoscenza, mondanizziamo il paziente, rendendolo definitivamente “uno schizofrenico”, “un bipolare”, “uno psicotico”, una cosa tra altri pazienti-cosa. Ed ovviamente una cosa si può aggiustare, rendere utilizzabile, schiacciare, nascondere, mai però curare. Ma abbiamo un’altra possibilità, forse più complessa, ma di certo più umana. E’ quella che Gilberto Di Petta ha definito funambolica: quella di chi tende una corda tra il vuoto e la presenza, tra l’angoscia e la fiducia, o forse tra due vuoti, tra due angosce. Potrebbe bastare un soffio di vento e vai giù, crolla tutto. Ma come arrivare dall’altro lato, su quella sponda di umanità che riteniamo ancora presente in chi vive un’esperienza psicotica? Come riaffermare la fiducia in chi non ha più fiducia? Non possiamo lanciare la fiducia dall’altra parte, come se fosse una palla da tennis, ma dobbiamo noi andare dall’altra parte, testimoniare al paziente che quel viaggio tra l’angoscia e la fiducia è possibile. Un “viaggio nel mezzo della notte”, come si intitola la tesi di una mia giovane paziente che ha vissuto un’esperienza psicotica. Quando è tornata a visita, dopo che le avevo fatto un TSO, perchè si agitava seminuda per strada, si lanciava tra le macchine in preda all’angoscia, dopo che pensavo che era quasi impossibile che continuasse a venire al CSM a “prendere farmaci”, mi ha raccontato la sua storia. E’ bastata qualche domanda per mostrare tutta la sua fragilità, ma in quella fragilità è a un certo punto emerso un sorriso, mi ha parlato dei luoghi in cui è nata, del Brasile in cui ha vissuto i primi anni della sua vita e da cui poi si è sentita sradicata. E io mi sono sentito lì, nella sua infanzia, nel Brasile che non conosco, ma che posso solo immaginare. E alla fine le ho chiesto del futuro, di questa tesi che sta scrivendo. Quando mi ha detto il titolo, le ho detto che, in ultima analisi, anche la psichiatria è un viaggio nel mezzo della notte: non sappiamo mai, in quella notte che è ogni incontro con un paziente, se e come ne usciremo. E le ho detto che non so se sarò in grado di accompagnarla in questo viaggio, ma che ci possiamo provare. E, in fondo, voi che leggete siete disposti a provare?

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Binswanger – Il caso Ellen West ed altri saggi
  • Binswanger – Essere nel mondo (in particolare, l’Introduzione a “La schizofrenia” ed “Il caso Lola Vossa”)
  • Basaglia – Scritti (in particolare, i primi scritti fenomenologici come “Il mondo dell’«incomprensibile» schizofrenico attraverso la «Daseinsanalyse». Presentazione di un caso clinico” e “Su alcuni aspetti della moderna psicoterapia: analisi fenomenologica dell’«incontro»)
  • Ballerini, G. Di Petta – Oltre e al di là del mondo. L’essenza della schizofrenia
  • Di Petta – Noi psichiatri del Novecento. Gli ultimi clown (2018)

 

Raffaele Vanacore

Psichiatra, specializzato all'Università "L. Vanvitelli", ha perfezionato la propria formazione presso il Dipartimento di "Psicopatologia e psicoterapia fenomenologica" di Heidelberg con il Prof. Thomas Fuchs. Attualmente allievo della Scuola di Psicoterapia Fenomenologico-Dinamica di Firenze. Attualmente lavora nei servizi pubblici campani.

One Comment

  1. Scopo delle poche righe che seguono e avviare una riflessione sul modo in cui la psicologia fenomenologica puo costituire il fondamento di una prassi terapeutica nuova nel campo della salute mentale. Una tendenza di questo tipo inizia ormai a diffondersi in Italia con la neonata Associazione Italiana di Psicologia Fenomenologica e in campo internazionale attraverso il lavoro del Phenomenology and Mental Health Network . Fin dalla loro origine le comunita terapeutiche sono state attraversate da due istanze contrapposte: la necessita di costruire e far rispettare un insieme di regole (all’interno della comunita e verso l’esterno) e quella di sostenere i pazienti nella libera espressione della propria vitalita. Da un lato, il bisogno normativo e mantenuto dalla necessita di costruire relazioni stabili, che non possono esistere se non nella condivisione di un terreno comune di regole (implicite ed esplicite). Sono disposto a mangiare fianco a fianco con uno sconosciuto, e magari anche a scambiarci due chiacchiere, perche mi aspetto che non rubi dal mio piatto appena mi distraggo. Dall’altro, sostenere ognuno nell’espressione del proprio modo di essere serve a mantenere viva la spinta verso un’esistenza autonoma, fatta di liberta, piacere e responsabilita. Se la prima necessita si impone sulla seconda si corre il rischio, sempre presente nel campo della salute mentale, della cosiddetta “ malattia istituzionale ” (Basaglia, 1965, 1967, Molaro, 2018) e della cronicizzazione. Il paziente, abituato a vivere in uno spazio troppo ristretto la propria soggettivita, si irrigidisce dentro schemi di comportamento prefissati, che riconosce come quelli approvati e rinforzati dalla comunita. Cosi la persona lentamente spegne l’incandescente vitalita del corpo proprio sotto la cenere dell’accondiscendenza e dell’ossequiosita. E questa la storia di tanti pazienti che hanno vissuto il manicomio, la cui esistenza si e inabissata nelle paludi dell’istituzione, assumendo la forma di una vita congelata (Di Petta, 1994-2014).

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