Desidero partire dal brano di Lorenzo Calvi, un invito alla visione eidetica, perché nel suo presentarsi come una preparazione alla formazione del giovane fenomenologo, introduce da subito uno degli elementi fondanti dell’atteggiamento fenomenologico: la sospensione dell’atteggiamento naturale. La visione eidetica è la risultante di tale sospensione, e compartecipa a quello strabismo menzionato dallo stesso Calvi in altre occasioni, in cui un’occhio è rivolto al mondo della mondanità, al di qua dell’epoché, e l’altro è rivolto al mondo della vita, al di là. La si può chiamare in molti modi: epoché, sospensione del giudizio o dell’atteggiamento naturalistico, messa tra parentesi; Piro si riferisce ad essa come Pausa Cronodetica, ponendo l’accento sulla Zeitlichkeit, l’essere-nel-tempo dell’uomo proprio della Cronodesi: nel momento in cui ci si prende una pausa, una sospensione da tutto questo, può avvenire il disvelamento dell’implicito, la scoperta di ciò che è sottinteso, può apparire l’ovvio.
Sono in molti, sin da Husserl, ad aver evidenziato una prassi fondante della fenomenologia quale l’interrogazione dell’ovvio. Il potere dell’epoché è quello di scostare all’indietro l’asticella dell’ovvio, permettendo una visione differente delle cose. Calvi nel brano riporta l’evento del portauovo come esempio di un’epifania, l’oggetto che da sé si stacca dalla catena di rimandi in cui è di norma inserito e da cui risulta adombrato e che ne ripiega il ventaglio di possibilità, illuminandosi di nuova luce, circonfondendosi, utilizzando le parole di Calvi. Di norma l’involontaria rottura della catena dei rimandi fa apparire il mondo e con esso l’angoscia sottesa, ma in questo caso, rimasto emblematico al punto che Calvi lo cita numerosissime volte nel corso dei suoi scritti e delle sue apparizioni pubbliche, si pone come esempio di un’accidentale esperienza di sospensione dell’atteggiamento naturale, caldamente auspicata al giovane fenomenologo per avere accesso, tramite una via bassa, al mondo della fenomenologia. In sostanza, la messa in discussione dell’ovvietà delle cose.
L’ovvio, e la sua messa in discussione, è qualcosa che mi ha da sempre affascinato ed è uno dei motivi, forse il principale, per cui la fenomenologia mi diverte. Mi diverte mettere in discussione le cose, anche quando sono granitiche. In realtà non sono granitiche le cose in sé, ma lo è la loro posizione in un data catena di rimandi talmente automatica da farne dimenticare lo statuto di possibilità, e dunque di scelta. L’ovvio diventa assioma, talvolta dogma, e in quanto tale indiscutibile. Discutere l’indiscutibile è divertente.
Calvi ben evidenzia come la fenomenologia sia psicoterapia, nel momento in cui si propone di fare i fenomenologi insieme, curante e assistito. Il paziente reca con sé il suo ovvio, frutto di un’epoché psicopatologica. Il percorso di terapia consiste dunque nel ridefinire l’ovvio, e per farlo occorre innanzitutto svelarlo. Nella vita quotidiana questo può accadere in maniera semplice, con il “gioco del perché“: si possono indagare i valori fondanti di una persona andando a ritroso sui perché delle sue azioni, pensieri, sentimenti, fino ad arrivare alla domanda insensata a cui viene offerta la risposta: “ma come perché? È ovvio che sia così!”. Il substrato d’ovvio è ciò può accomunare le persone o separarle in maniera netta. Raggiunta la roccia granitica dell’ovvio, può iniziare il lavoro di messa in discussione. È come scavare, appunto, e dopo il terreno che viene via più o meno facilmente si raggiungono le rocce, a allora lì si può andare di martello pneumatico, di esplosivi, di scalpello, o talvolta arrendersi all’idea che quel blocco da lì non si possa muovere. Questa è la delicatezza e la responsabilità necessaria in terapia: mettere in discussione l’ovvio vuol dire mettere in discussione le certezze su cui è edificata la nostra esistenza, il nostro mondo. Lavorare sull’ovvio richiede una grande sensibilità e responsabilità, la sensibilità di cogliere quando, dove e come si può andare a lavorare (es. il momento adatto, se il paziente ha le risorse per farlo, ecc. Ad un paziente lo si può preannunciare all’inizio della terapia: “te la senti di mettere in discussione tutte le tue certezze”, per altri invece è impensabile perché non ha sufficienti risorse per reggere alla ristrutturazione dell’ovvio), responsabilità perché all’atto della ristrutturazione dell’ovvio una persona può perdersi anche in maniera definitiva, quindi è fondamentale capire cosa si sta facendo e perché lo si sta facendo. Il sestante, il progetto terapeutico, l’etre-a-cotè diventa fondamentale in questo passaggio.
Lo svelamento dell’implicito, la messa in discussione del dato per scontato, dell’ovvio, e la sua ristrutturazione, per me hanno sempre rappresentato il caposaldo del mio modo di interpretare la terapia a orientamento fenomenologico. Attraverso epoché successive, un po’ come gli adombramenti prospettici, si rivelano nuovi stati di ovvio che dispiegano volta per volta il ventaglio di possibilità che era precedentemente rinchiuso. L’ente che, nella sua cronodesi, è inserito in una catena di rimandi, all’atto della pausa cronodetica viene estrapolato da quella stessa catena permettendo l’apparizione di ogni altra possibile catena di rimandi entro cui potersi collocare. La sospensione conferisce lucidità e libertà. Libertà e responsabilità sono le due parole che mi sono sempre risuonate di più nell’approccio fenomenologico. La portata di libertà diventa palese anche facendone un confronto con gli altri approcci terapeutici: rifacendosi questi ultimi a teorie, a differenza della fenomenologia che è innanzitutto un metodo, essi invece di sottrarre o ridiscutere finiscono per aggiungere un nuovo strato di ovvio. Il terapeuta non fenomenologo fa suo un approccio teoretico che rischia di diventare una nuova base, un nuovo ovvio, da cui partire. Quando ciò avviene senza una preliminare messa in discussione, paradossalmente si sottrae libertà, quando la terapia per me si configura come una ricerca di libertà, una liberazione dai vincoli, e per liberarsi dai vincoli eidetici che ci attanagliano l’esistenza è fondamentale innanzitutto lasciarli apparire, arretrando la nostra visione attraverso la pratica dell’epoché, per poi iniziare un lavoro di messa in discussione.
Lo strabismo a cui fa riferimento Calvi deve essere tenuto in mente, perché concentrarsi totalmente il mondo della vita a scapito del mondo della mondanità ci può far perdere quel senso di attività, nell’accezione impiegata da Minkowski, che invece è necessaria per abitare il mondo. Non si può vivere totalmente nell’autenticità, perdendo il sì impersonale, l’inautentico. C’è bisogno di un po’ d’ovvio, altrimenti avviene quella wahnstimmung, quella perdita dell’evidenza naturale che si sottrae il mondo e l’utilizzabilità delle cose del mondo. Non si deve rischiare di cadere definitivamente fuori le catene di rimandi. È una questione di equilibrio. Ancora una volta, equilibrio tra libertà e responsabilità.
Riferimenti Bibliografici:
- Blankenburg, W. (1991). La perdita dell’evidenza naturale. Un contributo alla psicopatologia delle schizofrenie pauci-sintomatiche. Raffaello Cortina Editore, Milano 1998.
- Calvi, L. (1996). Un invito alla Visione Eidetica. In Il tempo dell’altro significato. Esercizi fenomenologici d’uno psichiatra. Associazione Culturale Mimesis, Milano 2005.
- Heidegger, M. (1927). Essere e Tempo. Longanesi, Milano 1971.
- Husserl, E. (1950). Meditazioni Cartesiane. Casa Editrice Valentino Bompiani, Milano 1960.
- Minkowski, E. (1968). Il Tempo Vissuto. Fenomenologia e psicopatologia. Giulio Einaudi Editore, Torino 2004.
- Piro, S. (2006). Introduzione alle Antropologie Trasformazionali. La Città del Sole, Napoli.