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Sulla psicoterapia infantile

Recensione a cura di Marco Nicastro a Altman N., Briggs R. et al. (2002), Psicoterapia relazionale con i bambini (Astrolabio, 2005)

Da terapeuta dell’adulto che, negli anni, si è trovato a lavorare sempre più con bambini e adolescenti, posso affermare che lavorare come terapeuta infantile è molto più complicato che lavorare come terapeuta dell’adulto. Innanzitutto per le procedure necessarie per effettuare una diagnosi, e per il senso generale della diagnosi stessa in età infantile; ma anche per il processo di terapia del bambino.

Per quanto riguarda la diagnosi, tradizionalmente l’errore è stato di considerare la mente infantile una versione in piccolo di quella dell’adulto, e si è cercato di approntare conseguentemente dei manuali diagnostici che erano pensati sulla falsariga di quelli che classificano la psicopatologia dell’adulto.

La prima complicazione, che rendeva questo passaggio inappropriato, risiede nel fatto che la personalità infantile è per definizione in evoluzione, a differenza di quella dell’adulto già molto strutturata e stabile nelle sue manifestazioni sintomatologiche; la seconda complicazione sta nel fatto che per affrontare adeguatamente il processo diagnostico del bambino, a causa delle sue limitate capacità di introspezione, di ragionamento logico, di astrazione (almeno fino ad una certa età, di solito non prima degli 8-9 anni), è necessario sempre coinvolgere e ottenere informazioni dalle persone che sono più a stretto contatto con lui e hanno modo di osservarne per lungo tempo il comportamento (genitori e insegnanti in primis).

Relativamente al primo punto – la personalità in evoluzione del bambino – le modalità più utilizzate per la comprensione della condizione del bambino, non essendo possibile fare inferenze sicure circa le sue caratteristiche di personalità e l’affidabilità nel tempo delle stesse, si fa abitualmente ricorso a sistemi classificatori dei sintomi osservabili (primo tra tutti l’ICD dell’OMS) che prevedono un sistema descrittivo multiassiale, in cui la sintomatologia viene collocata a seconda dell’area che coinvolge: comportamento, apprendimenti, intelligenza, funzionamento adattivo ecc. Relativamente al secondo punto – la necessità di coinvolgere i caregiver e altre figure quotidianamente a contatto col bambino – il processo diagnostico prevede l’utilizzo di interviste e questionari standardizzati, i quali però spesso non hanno dei sistemi interni di controllo della qualità delle risposte (tentativi di simulazione, risposte casuali ecc.) di cui invece sono provvisti alcuni tra i principali questionari self-report per la diagnosi della psicopatologia dell’adulto. È certamente possibile ricavare delle informazioni anche direttamente dal bambino, osservando il suo gioco, i suoi disegni, le risposte a determinati test proiettivi e ad alcuni semplici questionari (se è abbastanza grande), ma il grado di affidabilità di queste informazioni è molto variabile e dipende sia dall’esperienza del clinico sia dalla relazione tra quest’ultimo e il bambino, sia infine dalla capacità del clinico di accompagnare e sostenere il bambino nel processo diagnostico e di espressione di sé.

In sostanza, è possibile fare la diagnosi di un bambino a patto che si raccolgano informazioni con strumenti variegati e da fonti diverse, tenendo sempre conto che quanto ne verrà fuori ha, da un lato, un carattere provvisorio, dato il processo di sviluppo della personalità infantile, dall’altro un grado di affidabilità non sempre adeguato per il tipo di strumenti o le capacità dei caregiver o del bambino stesso di fornire informazioni di qualità. Si tratta, come si può ben capire, di un processo dispendioso in termini di tempo e strumentazione necessaria per il clinico e piuttosto complesso in sé, anche per quanto riguarda i ragionamenti che il diagnosta deve fare per giungere alle sue conclusioni a partire dalla grande quantità di dati raccolti.

Anche per quanto riguarda il processo di cura, esso si è tendenzialmente strutturato sulla falsariga di quello pensato per l’adulto, a partire da un approccio più tradizionalmente psicoanalitico che vedeva attivi nel bambino gli stessi processi e conflitti inconsci fonte di patologia nell’adulto. Si trattava di un’ottica prettamente monopersonale dei disturbi e della psicoterapia portata avanti soprattutto dalle correnti kleiniane e post-kleiniane (per rimanere soltanto nell’ambito psicoanalitico), modello che comunque, come per l’adulto, è stato il primo a interrogarsi e a studiare in modo più approfondito i disturbi psichici del bambino e le modalità di cura degli stessi.

Nel tempo, sorgendo altri orientamenti (anche all’interno della psicoanalisi), questo approccio monopersonale e intrapsichico è stato affiancato da approcci più centrati sulle relazioni reali tra il bambino e i suoi caregiver: dalla teoria dell’attaccamento, alle terapie familiari, fino a quelle, per rimanere in ambito più strettamente psicoanalitico, a orientamento interpersonale. Col tempo si è quindi capito che, nel trattamento psicoterapeutico dei bambini, come avviene per la diagnosi, è necessario coinvolgere le sue figure di riferimento, in particolare i genitori. Questo perché la personalità del bambino è ancora in evoluzione, ed è, a causa della sua dipendenza affettiva dalle sue figure di attaccamento, molto suscettibile all’influenza degli atteggiamenti genitoriali e dell’organizzazione del suo ambiente di vita. Ciò rende addirittura più utile, almeno in una parte dei casi, lavorare sulle persone di riferimento del bambino che non sul bambino stesso, sia per evitare precoci processi di etichettamento del piccolo paziente, sia per ottimizzare l’efficacia del trattamento agendo su una delle cause certe e più forti del suo malessere.

Di questi aspetti e di molti altri, compresi l’uso e il senso del gioco come strumento diagnostico-terapeutico, i limiti e le difficoltà del lavoro del terapeuta, l’importanza di un lavoro centrato innanzitutto sulla relazione più che su interventi di tipo cognitivo o interpretativo più classico, la questione della privacy, nonché la necessità di un lavoro coi genitori, si occupa con dovizia di particolare il bel libro di Altman N., Briggs R. et al. (2002), Psicoterapia relazionale con i bambini (Astrolabio, Roma, trad. it. 2005).

Per la quantità delle questioni trattate, per l’onestà intellettuale con cui queste vengono analizzate, ma anche per la chiarezza con cui vengono spiegate, credo che quest’opera possa essere inserita tra gli strumenti indispensabili per chi si appresti a lavorare come psicoterapeuta infantile, ma anche per chi, lavorandoci da tempo, voglia ampliare il proprio modo di concepire le questioni in campo. L’unico difetto del testo, se così si può definirlo, è forse quello di non approfondire una questione spesso al centro del lavoro dei terapeuti infantili soprattutto in ambito pubblico, quello della diagnosi o della terapia con bambini a centro di controversie legali tra i genitori, un tema molto diffuso e che certamente gli autori, che nel libro accennano solamente, data la loro esperienza e quanto sono riusciti ad approfondire nei vari capitoli, avrebbero potuto affrontare con competenza e probabilmente originalità.

Marco Nicastro

Psicoterapeuta di formazione psicoanalitica, è dirigente psicologo presso l'Ulss di Padova. Ha pubblicato diversi articoli di argomento clinico su riviste scientifiche nazionali, i saggi: Il carattere della psicoanalisi (2017), Pensieri psicoanalitici (2018), La resistenza della scrittura. Letteratura, psicoanalisi, società (2019), Psicoterapia come esperienza umana (2022), La valutazione delle capacità genitoriali (2022), Non di solo pane. L'uomo e la ricerca del senso (2022).

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