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Asylums di Goffman: per una cura consapevole in psichiatria

Il trattato Asylums di Goffman è considerato un classico sulla letteratura sui rischi delle istituzioni totali. È composto da diversi saggi, tra i quali il più importante e conosciuto è il primo, che apre il libro, dal titolo “Sulle istituzioni totali”.

Il saggio si configura come un’opera miliare di sociologia delle istituzioni, per la brillantezza degli approfondimenti dell’autore, impegnatosi per più di un anno in un’opera di osservazione diretta di un ospedale psichiatrico americano con più di 7000 degenti, e per la ricchezza dei contenuti, di eccezionale attualità.

Vediamo, diseguito, i punti più importanti della trattazione di Goffman.

Goffman mette sullo stesso piano istituzioni totali di diversa tipologia come carceri, campi di concentramento, istituzioni psichiatriche, istituzioni militaresche come navi e campi di addestramento, e istituzioni religiose chiuse come monasteri e abbazie. Il principio e la forma sociologica che le accomuna, l’autore spiega, è la stessa, e va sotto il nome, appunto, di “istituzione totale”.

La maggior parte del lavoro fatto da Goffman ha a che vedere con la realtà dell’istituzione psichiatrica; è per questo forse che il libro è ricordato in particolare come esempio di letteratura inerente la “psichiatria democratica”.

L’istituzione totale prevede una replica, in piccolo, della società esterna, con però leggi diverse; al suo interno, la divisione principale è tra gli “staff” (cioè chi vi lavora) e gli “internati” o degenti. Nel primo saggio “sulle istituzioni totali”, Goffman fa una lettura lucidissima di quelli che sono i rapporti di potere tra internati e staff, di fatto grottescamente distorti dal “microclima” in cui questi siano a doversi espletare: particolarmente suggestive le delucidazioni sui cosiddetti momenti di “rilassamento” di queste stesse dinamiche di potere, di fatto utili esclusivamente alla sopravvivenza omeostatica dell’istituzione stessa. Come il carnevale medioevale rappresentava un momento di rovesciamento funzionale e salubre alla sopravvivenza e al buon funzionamento, fluido, della società dell’epoca, così, nell’istituzione totale, sono previsti momenti di rilassamento e maggiore commistione tra internati e staff, entro forme precise e di fatto stereotipiche. Goffman cita la “partita di calcio” tra internati e staff, il “teatro” come luogo di possibile inversione e rimescolamento dei ruoli, la cena conviviale con operatori e internati mischiati a Natale e Capodanno, momenti insomma in cui i rapporti di potere sembrano assottigliarsi e per un momento annullarsi. In realtà però tali momenti risultano funzionali al loro stesso rafforzamento. Impressionante notare, come chiunque abbia lavorato in un’istituzione odierna chiusa (comunità terapeutiche, strutture di cura di varia forma), come Goffman descriva dinamiche a tutt’oggi vive e attivamente ricreate all’interno di queste strutture.

Nella descrizione di quella che chiama “carriera morale del malato mentale” (secondo saggio breve), Goffman descrive il processo che fa sì che l’istituzione promuova uno schiacciamento del Sè del degente, fino a una sua completa “istituzionalizzazione”. Un aspetto su cui Goffman si concentra, è il potere “stigmatizzante” o connotante del luogo dell’istituzione stessa. Ovvero, è l’essere stato in carcere o in manicomio a dare avvio al processo di “etichettamento” del degente e alla sua successiva “carriera” (termine scelto con cura) da malato psichico. Un ipotetico uomo di potere che riuscisse a non fare il carcere, ma a scontare la sua pena in modo alternativo, verrebbe salvato dal marchio connotante del luogo/istituzione; Goffman in questo modo sottolinea come possa essere forte l’impatto dell’istituzione totale sia sul Sè (per l’individuo stesso) che sull’immagine costruita agli occhi degli altri.

Un aspetto approfondito da Goffman è l’adattamento dell’individuo all’istituzione totale, che suddivide in “primario” (adesione totale alla forma dell’istituzione e apologia della sua morale) e “secondario” (adesione parziale e tentativi -repressi o no- di disorganizzare la forma dell’istituzione). Goffman qui si spende in una descrizione minuziosa di una serie di comportamenti messi in atto dagli internati, volti a sovvertire l’ordine istituzionale in modi più o meno raffinati: dall’usare particolari oggetti al fine di procurarsi vantaggi pratici, al “lavorarsi il sistema”, all’”usare” l’istituzione stessa per ottenere vantaggi di vita (non pagare più un affitto, garantirsi vitto e alloggio). Tutto ciò è argomento evidentemente attuale;

Goffman pone l’accento sulla funzione squisitamente sociale e custodialistica, dell’istituzione, e in particolare quella psichiatrica.
Nel momento in cui un certo numero di persone si trovassero d’accordo , in modo implicito, nel dover o voler “allontanare” dal gruppo sociale un terzo individuo (immaginiamo il gruppo composto da parenti, curanti interpellati e conoscenti del futuro degente), la “macchina” istituzionale verrebbe avviata e, una volta “internato” l’individuo, si creerebbero le condizioni necessarie a far sì che la ragione sottesa al suo internamento fosse di volta in volta confermata, con la collusione, in pratica, di tutti gli attori coinvolti. Goffman fa qui una rilevazione macroscopica di un meccanismo molto potente (sociale) che di fatto esclude alcuni individui dal campo visivo degli altri, considerati sani. Nel triangolo composto da “persona di fiducia”, futuro degente e operatori sanitari, questi ultimi saranno quelli preposti a caricarsi della responsabilità dello “strappo” famigliare. La persona di fiducia (tutore, parente prossimo) è colui che è deputato a rinforzare la motivazione alla cura dell’internato e tenere vivo, al contempo, il rapporto con lui/lei. L’internamento rappresenta così, di fatto, un sacrificio umano sull’altare della buona pace pubblica.

Goffman fa notare che in un ambiente di istituzione totale di taglio psichiatrico si potrà creare un ambiente persecutorio in cui sarà impossibile NON comunicare, per l’internato, agli occhi degli staff. Ogni segno di rivolta, così come ogni segno di acquiescenza eccessiva, verrà interpretato con occhio clinico, al fine di confermare la motivazione stessa all’internamento dell’individuo, come in un gioco di “ruoli iperdefiniti” rigidi e immutabili agli occhi dell’istituzione stessa.

Interessante anche il riferimento fatto da Goffman alla “geografia della libertà”, con zone dell’istituzione a scarsa, media e alta sorveglianza da parte dello staff, luoghi “neutri” o sicuri dover poter finalmente essere “se stessi” e zone alle quali il libero accesso avrebbe significato una “progressione” avvenuta nella carriera da internato (maggiori privilegi, maggiore libertà). A proposito di questi luoghi neutri, esclusi dalla politica dell’istituzione totale, Goffman cita il bagno, come ultimo rifugio dover poter ricongiungersi con un sé non intaccato dall’istituzione (Goffman osserva questo riferendosi anche alla realtà dei campi di concentramento).

Ciò che distingue un’istituzione da un’istituzione totale sono i suoi confini. Le dinamiche di istituzioni di questo tipo sono tali perchè il loro essere “chiuse” le costituirà a luoghi “altri” entro i quali questo tipo di dinamiche (scissionali, foriere di polarizzazioni) possano attecchire (si confronti a questo proposito il concetto di eterotopia di Foucault). Dove non c’è “sottosistema chiuso”, queste dinamiche perderebbero di senso, divenendo grottesche o assurde (che è l’impressione di chi, dall’”esterno”, osservi per la prima volta il funzionamento di un’istituzione totale senza viverla).

Le riflessioni di Goffman sono veramente impressionanti. Molte delle sue osservazioni sono valide ancora oggi dove esistano forme, magari mutate o raffinate, di istituzione totale. Questo libro andrebbe letto da chiunque lavori o abbia lavorato in strutture chiuse come comunità riabilitative, case di cura, carceri, o ambienti “chiusi”. Ci troverà un’attualità veramente incredibile, come se il libro, del 1961, fosse uscito ieri.

Nel libro potrà essere rintracciata una certa ideologia anti-psichiatrica, soprattutto quando l’autore si interroga sul senso ultimo dell’istituzione intesa come luogo di cura. L’obiettivo di Goffman è probabile fosse quella dell’antropologo: descrivere e calarsi in un certo ambiente, facendo un “giro lungo”, per metterne alla luce le fattezze e i meccanismi, senza per forza darne un giudizio di valore -che però in questo caso, a ben vedere, c’è.

Di particolare forza, e pilastro centrale del libro, andrebbe evidenziato il meccanismo dell'”ostracismo” sociale del malato psichico, cosa che chiunque ancora oggi lavori in ambito psichiatrico, noterà strisciante al di sotto di alcuni meccanismi territoriali con protagonisti famigliari e curanti, in certe particolari situazioni (per esempio la donna di mezza età amministrata e privata della libertà di poter decidere della gestione dei suoi beni, quindi di fatto espropriata e poi abbandonata dai servizi, con la collusione di famigliari e operatori altri; oppure la progressiva cronicizzazione del paziente psicotico verso cui si getta la spugna in senso clinico, con la collusione silente della cooperativa o del servizio che lo ospiti, a fronte di ingenti entrate mensili derivate dalle rette). La legge Basaglia ebbe il grande merito di smantellare le istituzioni in senso fisico; virtualmente, come questo libro –  così attuale- ci ricorda, la questione è molto complessa. Purtroppo, nonostante la chiusura dei manicomi, certi meccanismi di “malagestione”, sopravvivono ancora oggi sotto forme diverse.

Raffaele Avico

Psicologo, psicoterapeuta e psicotraumatologo, scrive anche per La Stampa, Il Foglio Psichiatrico, State of Mind e collabora alla redazione di Psychiatry On Line. Socio AISTED e ESTD, è interessato alla questione dello stress post-traumatico in particolare, e più in generale a tutto ciò che concerne la psicologia clinica nella sua accezione più applicata e reale

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