Una recensione a ‘Il corpo vivo nel mondo’, di Thomas Fuchs
È difficile conservare quella crudeltà che è d’obbligo per l’osservazione incorruttibile. Il calore del ricordo si espande ovunque, e una volta che ci si sia completamente abbandonati ad esso, non si potrà più vedere nessuno con i duri occhi della realtà.
Elias Canetti
Trovavo davvero che fosse cosa buona riprendere contatto con l’universo, l’oceano, il cielo, il monsone, i pesci volanti, il calore dei tropici, l’acqua salata, le costellazioni dell’altro emisfero, i pellicani e i gabbiani, la vera essenza delle cose, e i marinai, che sono gli uomini più comprensivi, ma anche i più misteriosi del mondo.
Blaise Cendras
Avere tra le mie mani questo testo non mi lascia indifferente.
Non si tratta, però, di una indifferenza per sentito dire e neppure quella attenzione che da sempre concedo all’oggetto libro e alle sue differenti declinazioni. Non mi lascia indifferente nel senso che questo testo mi chiede di partecipare al suo contenuto, al movimento che crea il suo passaggio. Mi chiede di provare le nuove posizioni, la prospettiva cui permette di accedere una volta letto, anche non per intero o per capitoli scelti. Si tratta infatti di una raccolta di lavori di Thomas Fuchs, scelti e tradotti da Valeria Bizzarri e Raffaele Vanacore, filosofa e psichiatra che di Fuchs sono stati allievi ad Heidelberg.
Una raccolta di cui si sentiva il bisogno.
Intanto, anche solo se i luoghi vogliono dire qualcosa, come intuisce – senza dirlo esplicitamente – Gilberto Di Petta nella sua prefazione alla raccolta, e come invece giustamente sottolinea Valeria Bizzarri, allora c’è da aprire con grandi aspettative questo testo, figlio innanzitutto di un ambiente particolare. Heidelberg è infatti in qualche modo la città-architrave della fenomenologia continentale, luogo che fu di Kraepelin, Gruhle e di Jaspers, luogo che ha visto l’incontro di Schneider e Callieri (occasione che quest’ultimo ci ha spesso raccontato di persona, descrivendoci sin anche il plaid con il quale il grande psichiatra tedesco teneva al caldo le proprie gambe). Heidelberg, luogo di studio e riscoperte, di incontri accademici mai più ripetibili.
È in questo luogo mitologico tra pianura e foreste, sulle rive del fiume Neckar che proprio ad Heidelberg fa il suo ingresso nella valle del Reno, che il prof. Fuchs svolge da molti anni la sua attività di ricercatore, psichiatra e fenomenologo al limitare del mondo delle idee e di quello dei corpi.
Ed è proprio invece in quella zona limite che è nostro inosservato habitat quotidiano – nella confluenza di mondo, soggetto e corpo – che il presente libro introduce il lettore.
Scrivo da una prospettiva particolare, mi vien da dire. Ovvero da quella di un clinico che ha in principio conosciuto il campo della fenomenologia attraverso quasi unicamente il pensiero dei maestri italiani, e dalla loro viva voce. Mi son trovato in effetti a principiare e approfondire i miei studi, tra convegni e letture, quando, oltre agli scritti dei nostrani, non erano disponibili poi molte traduzioni di psicopatologi altri (i nomi che ora mi vengono alla mente, a parte Jaspers e Binswanger, sono Kimura Bin, Scharfetter, Tatossian, Cutting, Lanteri Laura e Van den Berg). I testi tradotti appartenevano a collane non più ristampate dagli anni ’60 o ’70, ed erano quindi spesso protagonisti di edizioni introvabili, veri e propri Graal che ci giocavamo di bancarella in bancarella. Mentre infatti la psicoanalisi ha da subito usufruito di un numero infinito di appassionati, allievi, ricercatori e quindi traduttori, la psicopatologia fenomenologica, vuoi per la difficoltà dello scrivere e quindi del tradurre, vuoi per la difficoltà di accedere al pensiero e alla persona degli psicopatologi stessi, ha sempre arrancato.
Negli ultimi anni, negli ultimi dieci anni, abbiamo assistito invece ad una rimonta della fenomenologia clinica, della psichiatria e psicopatologia fenomenologiche, e non di rado ho discusso della fortuna degli attuali allievi, di Figline e della Scuola di Firenze, che hanno a disposizione molto materiale che ‘ai miei tempi’ non era disponibile. Questo testo rientra in quest’ultima categoria: materiale prezioso, finalmente nella disponibilità di tutti.
Fuchs, introdotto e circondato amorevolmente dagli scritti dei curatori, si muove sicuro e con grande maestria concettuale, tecnica e scientifica, di citazione in appello, all’interno di un pensiero che vede superato definitivamente il dualismo mente-corpo e soggetto-mondo. Non a caso, infatti, il titolo rimanda ad una dimensione senza soluzione di continuità, perché viva e pulsante; rimanda all’appello dei corpi e delle prospettive all’interno del mondo, ad una prospettiva che brilla sulla superficie dei rapporti, dell’intercorporeità vissuta, affettiva, sentita e agìta. Si tratta di un pensiero che si fa immediata comprensione vissuta dell’altro nel lettore, nel lavoro clinico e teorico del lettore, nella sua pratica di relazioni umane, affettive, terapeutiche. Un pensiero che, tra le altre cose, parte fenomenologicamente dal mettere in discussione l’ovvietà del concetto di movimento, portandolo al centro di una danza condivisa (p. 18) osservabile solo dopo aver sospeso la nostra abituale sosta aproblematica presso le cose, e gli altri:
“Entrambi i partner sono collegati da un sistema totalizzante attraverso percezioni e reazioni reciproche. Indicare, afferrare, muoversi verso, sorridere, piangere… tutte queste cose non sono solo comportamenti esteriori ai quali dobbiamo attribuire un significato per mezzo di un’inferenza, piuttosto, attraverso la nostra risonanza corporea, essi diventano espressioni e azioni intrinsecamente significative” (p. 12).
Dopo una, appena implicita, richiesta al lettore – quella ovvero di sospendere ciò che conosce e che lo relega in precisi schemi di scuola, preconcetto e conoscenza – il discorso-sul-corpo, in questo testo, si fa discorso-del-corpo, dialogo vivo per immagini e materia, alla ricerca dell’origine, della fonte prima di differenti fenomeni: dalla socialità umana alla psicopatologia, dall’autismo alla comprensione empatica.
In questo testo, il corpo, ma non solo, il mondo, l’atmosfera e la relazione si liberano dal peso della tecnica per adire a quello della visione delle meccaniche trascendentali delle relazioni, che appaiono in qualche modo riprodotte (e con ovvie difficoltà, visto l’oggetto) nei numerosi schemi con i quali si prova a dare senso visivo a quanto spiegato a parole, così come lungo il testo siamo invasi da immagini e movimenti impercettibili che, ne sono certo, compiamo leggendolo sulla base di nostri ricordi e schemi motori che vengono richiamati dalle parole dell’autore (si veda, tra tutti, l’esempio dei giocatori di football, p. 12):
“Dunque, vi sono certamente componenti ‘meccaniche’, processi ormonali, resistenze periferiche…, ma se perdiamo di vista l’essere nel mondo del corpo ci lasciamo sfuggire la modalità d’essere specifica del corpo vivo: essere un corpo che abita il mondo. Ed è chiaro che se partiamo dal corpo-morto questo aspetto ci deve necessariamente sfuggire, poiché il corpo-morto e il corpo-macchina non abitano alcun mondo” (Costa, Cesana 2019, 73).
Lungo tutto il testo siamo nell’area crepuscolare del preriflessivo, dell’embodiment, del corpo-che-sono, del Leib insieme e oltre il Körper.
Si tratta di un ambito vissuto, non pensato, che viene messo in discussione primariamente, come fenomeno basale, nelle psicopatologie gravi, come la cosiddetta schizofrenia (nella quale risulta alterato il senso della sintonizzazione incarnata), e sul quale ci hanno informato in maniera sublime e completa, tra gli altri, già Ballerini e Di Petta (2015). Se il disturbo basale, ci ricorda Fusilli (2012), è stato definito nella doppia accezione di alterazione del substrato biologico e quindi della base condivisa del senso comune (e della sua muta ovvietà), Fuchs punta la propria lente trascendentale sull’intercorporeità, e quindi sul difetto fondativo della stessa: la definizione degli stadi dell’intersoggettività (primario, secondario, terziario) non fa altro, in questo senso, che permettere uno sguardo sulla formazione del soggetto (e del suo mondo), campo sino ad ora affidato quasi unicamente al pensiero e all’occhio psicoanalitici[1].
La questione del corpo, che risuona sin dalla prefazione di Gilberto Di Petta, è in questo libro centrale, per come lo è anche nella formazione della mente e della relazione, e con esse del mondo vissuto di ognuno, dell’ambiente, delle possibilità vitali e anche terapeutiche (nel caso dei colleghi ‘a giorno’ del pensiero fenomenologico-clinico). In questo senso, una domanda che mi sono fatto leggendo il testo, è stata quella della mia posizione rispetto ai concetti ospitati al suo interno, concetti ad esempio come corporeità e situazione-limite.
Per uno psicologo come il sottoscritto, impegnato anche sul fronte dell’assistenza, supporto e cura del trauma provocato su bambini, adolescenti, fratelli e genitori, da una diagnosi di malattia oncoematologica in ambito appunto pediatrico, l’ingresso nel campo, in reparto, è stato il momento della scoperta del corpo.
Della scoperta del dolore fisico.
Della scoperta del peso delle membra.
Della scoperta del gelo nel sangue.
Si è trattato del momento nel quale ho potuto infine forse correggere il difetto principale della formazione universitaria in Psicologia (almeno sino ai miei felici e ventosi tempi marchigiani), ovvero l’assenza del corpo, la negazione della percezione del proprio corpo e di quello dell’altro (tranne, nella mia esperienza, per alcuni eroici tentativi di Loredano Matteo Lorenzetti e Carlo Cristini).
In questo senso, ho potuto conoscere la parola del corpo quando comunica un problema, quando smette di esserci ma in silenzio, senza dare segnali di sé, quando viene finalmente notato per quello che è: il nostro strumento per il mondo. La prima distanza (per malattia o fisiologico invecchiamento) dalla condizione di anonimia, propria della salute e della gioventù, porta all’inedita e traumatica separazione del corpo che sono (Leib) dal corpo che ho (Körper), con la conseguente e sfortunata perdita del carattere silente del corpo stesso e alla trasformazione del corpo da strumento-per a ostacolo-al mondo.
O meglio, forse, il corpo malato immette il soggetto, lo introduce in un mondo malato, un mondo di differenti relazioni, di nuova attenzione, nuove paure, diverse conoscenze, nuove percezioni: un mondo differente, separato da quello precedente da un argine di angoscia, dalle conseguenze iatrogene delle terapie e infine dal pregiudizio.
Come cambia l’altro, come cambia il mondo al modificarsi del proprio corpo, del corpo delle percezioni, del corpo del piacere, del corpo del dolore? È sempre vero che chi va con lo zoppo impara a zoppicare?
“Il mondo dei malati di cancro è un mondo ‘altro’ per l’essere umano in salute e attivo professionalmente, come sono di solito il medico, l’infermiere e lo psicologo. La tentazione di questi ultimi è allora quella di rapportarsi con il malato attraverso una psicologia elaborata a loro immagine, leggendo i suoi comportamenti attraverso la loro gerarchia di paure, desideri e valori. Questo ‘normomorfismo’ misconosce però le specificità dell’esistenza del malato di cancro, come quelle della persona adulta non riconoscono le specificità dell’anziano. È una vera e propria voragine quella che persiste tra questi due mondi fondamentalmente differenti ma che la nozione di esistenza e la sua esplorazione può aiutare a colmare” (Tatossian 1977, 2019, 285, traduzione mia).
Fuchs di questo ne discute, riprendendo in qualche modo Jaspers, a proposito delle situazioni base, quali situazioni caratterizzanti l’esistenza umana e contro le quali l’unitarietà del Dasein impatta, situazioni come “il dover morire, dover soffrire, dover combattere, essere in balia del caso e affrontare l’inevitabilità della colpa” (p. 113). Tali situazioni base, quando da semplici generalità, descrizione di comune orizzonte, si trasformano in situazioni intollerabili per il singolo individuo, divengono allora vere e proprie situazioni limite:
“Attraverso le situazioni limite, la struttura antinomica e basica del Dasein viene alla luce. In tal senso, esse hanno una natura ‘scoperta’ (…) si rompe anche qualcosa che Jaspers chiama ‘guscio’ (Gehäuse). Tale guscio è una struttura consolidata di pensiero e un atteggiamento fondamentale, che offre protezione dl limite e sicurezza nei confronti dell’interrogazione esistenziale. In effetti, il guscio è in un certo senso necessario nella misura in cui – in quanto presupposto di base del buon senso – fa parte del mondo della vita comune e culturalmente specifico. Allo stesso tempo, offre false sensazioni di stabilità, sicurezza o autostima, e nasconde le antinomie del Dasein costruendo concezioni del mondo armonizzanti. (…) il limite esistenziale viene infatti sperimentato quando l’involucro si rompe; in altre parole, quando la propria visione su come la vita dovrebbe essere fallisce completamente, o almeno lo fa in qualche modo chiave” (p. 114).
Sono nei miei occhi, e in quelli dei miei colleghi, le reazioni degli adolescenti al nominare loro la malattia che li terrà piantati a terra quando stavano invece per sorvolare capitali straniere e spiagge assolate, quando stavano per lanciarsi finalmente, dopo anni di noia e videogames, verso un altrove di rilancio oltre il proprio ambiente e la propria cerchia familiare.
Nei nostri occhi le reazioni dei genitori, che possono sopportare la malattia di tutti ma non quella del proprio figlio, che certo non rientra nel contratto non scritto che si firma nascendo al mondo (ma che risulta alla fine solo in una noticina che nessuno arriva mai a leggere, e che gli viene fatta notare dai medici – o dai filosofi – solo nello sfortunato caso di malattia).
Il ‘guscio’ (Gehäuse) (p. 114) lascia il posto alla pelle scoperta, alle terminazioni nervose, alla trasparenza della carne che appare finalmente oltre l’opacità del corpo: è sempre stata lì, e non lo sapevamo. Non lo sentivamo, non ne avevamo forse il motivo[2] (Calvi 1981; Del Pistoia 2008).
Fuchs, in uno dei capitoli che più mi sono rimasti in mente, cita il trauma e la vulnerabilità quali situazioni limite (p. 116 e oltre), ed è proprio questo ciò di cui si tratta, con cui si tratta quando abbiamo a che fare con delle persone alle prese con il proprio corpo, con il proprio mondo malato, con il proprio corpo che è divenuta una minaccia, il proprio corpo vulnerabile, il proprio mondo ferito. L’angoscia è la chiave della serratura, in tutti i casi. L’angoscia è la chiave della serratura psicotica, così come è la chiave della serratura organica. La chiave che scoperchia un mondo, che apre il sipario sulle quinte, che “toglie il tappeto da sotto i piedi” (Jaspers, citato p. 116):
“Da un lato, possiamo ipotizzare traumata psichici che sorgono da esperienze che mettono la persona di fronte alla minaccia immediata di morte o di pericolo grave per la propria integrità fisica e mentale (…) Dall’altro, la soglia che separa l’esperienza comune, quotidiana, dalle situazioni limite è in grado di spostarsi nelle persone con malattie mentali. Queste persone sono in qualche modo particolarmente sensibili alle implicazioni esistenziali di certe situazioni della vita. Di conseguenza, anche eventi relativamente innocui e superficialmente insignificanti possono essere vissuti in modo patologico come situazioni limite.” (p. 112).
In questo senso, in un lavoro ospedaliero, ma non solo, che sia l’adeguarsi dell’ottica dalla vista alla visione, nel tentativo di intercettare l’esistenza e il mondo altrui, l’epochè è un esercizio che il fenomenologo si può permettere solo dopo aver compreso prima la posizione del paziente. Il bioniano ‘senza memoria e senza desiderio’ (1967), che tanto ci hanno ripetuto, l’andare incontro all’altro ad occhi chiusi non è una pratica consigliata nei primi approcci, ai quali bisogna invece arrivare preparati e consapevoli del mondo, della fase di ingresso o di uscita dal mondo che il paziente e i suoi familiari stanno affrontando. Decollo o planata, stallo o crociera?
C’è sempre tempo per sospendere, o forse non c’è più tempo per farlo. Non importa: c’è però sempre tempo per esserci, e condividere un mondo, per quanto solo sfiorato, desiderato.
Ne vale sempre la pena, non importa per quanto tempo, per quale altrove sconosciuto, anche solo perché, come diceva Lorenzo Calvi: una alienità condivisa equivale ad una alterità.
BIBLIOGRAFIA:
- Ballerini, A., Di Petta, G, Oltre e aldilà del mondo. L’essenza della schizofrenia. Fenomenologia e psicopatologia, Fioriti, Roma, 2015.
- Basaglia, F., (1965), Corpo, sguardo e silenzio. L’enigma della soggettività in psichiatria, in Scritti, vol I, Einaudi, Torino, 1981.
- Bion, W., Notes on memory and desire, Psychoanalythic Forum, Vol 2, n. 3, International University Press, NY, 1967.
- Calvi, L., Per una fenomenologia del sollievo, in Calvi, L. (a cura di) Antropologia fenomenologica, Franco Angeli, Milano, 1981.
- Canetti, E., Appunti: 1942-1993, Adelphi, Milano, 2021.
- Cendrars, B., Il raggio verde, Via del vento, Pistoia, 2011.
- Costa, V., Cesana, L., Fenomenologia della cura medica, Morcelliana, Brescia, 2019.
- Del Pistoia, L., Saggi fenomenologici, Fioriti, Roma, 2008.
- Fusilli, A., Arnaldo Ballerini: eterno debuttante di primo rango tra l’idem e l’ipse della psicopatologia, Comprendre– Archieve International pour l’Anthropologie et la Psychopathologie Phénoménologiques, La Garangola, Padova, 2012.
- Gentile, A., L’ombra e le situazioni-limite in Karl Jaspers e Carl Gustav Jung, Areté, Unimarconi.it
- Perec, G., L’infra-ordinario, Bollati Boringhieri, Torino, 1994.
- Tatossian, A., Oeuvres Complete, Vol. 2, MJV, Marseille, 2019.
Note:
[1] Nota a margine: di corpo, vicinanza, vulnerabilità e rispetto, di spazio disponibile e attenzione all’altro, ne aveva tra l’altro scritto, in un saggio di commovente bellezza e chiarezza che torna in mente sfogliando questo testo, lo stesso Franco Basaglia (1965, 1981), cui dobbiamo le parole cui ricorrere ogniqualvolta necessitiamo di un punto nave nella relazione con l’altro.
[2] “Dormiamo la nostra vita di un sonno senza sogni. Ma dov’è la nostra vita? Dov’è il nostro corpo? Dov’è il nostro spazio?” (G. Perec 1994, 12)