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Un singolare gatto selvatico. Jean-Jacques Abrahams, l’uomo col magnetofono. Recensione di Gianluca D’Amico

Jean-Jacques Abrahams nasce il 18 dicembre del 1935 da una agiata famiglia belga ed ebrea. Il padre, Raymond, era un importante avvocato; la mamma, Julienne, figlia di un industriale tessile. È uno studente brillante e vuole fare il pilota, ma i genitori lo costringono a studiare giurisprudenza. Si laurea a 21 anni in diritto internazionale privato e inizia a lavorare presso lo studio paterno. Mostratosi come più in gamba del padre, a 31 anni e improvvisamente, J.J. smette di lavorare e inizia a peregrinare tra la Francia e il Belgio a spese della famiglia.

Incontra la psicoanalisi a soli 14 anni. L’inviante era, nemmeno a dirlo, Raymond, l’austero padre avvocato. Le ragioni non le conosciamo. Ma sappiamo che Jean-Jacques visse la terapia come un obbligo e come un assalto alla sua innocenza e giovinezza. Due o tre volte alla settimana, per quindici anni.

A 32 anni ritorna, dopo tre anni di interruzione, dal suo psicoanalista, il dott. Van Nypelseer; ma ci ritorna armato. Nessuna rivoltella, nessun fucile e nessun coltello ma solo un terzo ingombrante e scomodo: un magnetofono. J.J. era pronto alla resa dei conti col dottore ed era pronto a farne testimonianza. Una settimana dopo la seduta col magnetofono, viene prelevato dalla polizia e internato nel manicomio di Laken. Riesce a fuggire, ma subisce in seguito altre ospedalizzazioni forzate. Nel 1968 scrive una lettera destinata alla rivista filosofica Les Temps Modernes (fondata nel 1944 da Simon de Beauvoir e J.P. Sartre) che racconta la storia della sua fuga dal reparto psichiatrico. Propone al direttore della rivista di pubblicare la trascrizione del dialogo con il suo psicoanalista (che aveva appunto registrato grazie al magnetofono, questo fastidioso terzo incomodo). Il dialogo psicanalitico (così Abrahams suggerisce di chiamarlo) scatenerà un vivace dibattito all’interno della redazione: il testo verrà pubblicato l’anno dopo ma Pontalis e Pingaud, contrari alla pubblicazione della trascrizione e per questo in aperto contrasto con Sartre, decidono, poco dopo, di abbandonare la redazione della famosa rivista.

In Italia la vicenda di Abrahams e il suo gesto di rottura arrivano nel 1977 grazie  alla casa editrice di Elvio Fachinelli, L’erba voglio. La vicenda riverbera fino ai nostri giorni e il dialogo psicoanalitico viene ripubblicato, a cura di Giacomo Conserva, Pietro Barbetta e Enrico Valtellina, per Ombre corte. 1967-1977-2017: l’uomo col magnetofono non c’è più, ma la sua registrazione testimonia ancora di qualcosa che, nell’era della tecnica, forse non ha più così risonanza: i rapporti di potere all’interno dei setting di psicoterapia.

Una persona arriva in studio. Sta male. Chiede aiuto. Ha la speranza che lo strizzacervelli che incontrerà sarà capace di alleviare, almeno un po’, questa sofferenza che ora, per qualche ragione, si è fatta insopportabile. Se questa cornice è almeno verosimile, evidenti sono le asimmetrie già di partenza nel rapporto tra paziente e terapeuta: il paziente è quello che chiede aiuto e il terapeuta è quello che lo dà; il paziente è quello che sa della sua sofferenza ma non abbastanza per renderla almeno sopportabile. In sintesi: lo strizzacervelli è quello che aiuta in virtù di una certa esperienza e competenza tecnica che il paziente non possiede.

Dopo cosa succede? Succede che il paziente racconta il suo problema e la sua storia; succede che lo psicoterapeuta fa domande e cerca di farsi un’idea (sulla base di una teoria) di chi ha di fronte e di cosa soffre chi ha di fronte. Una volta ridefinito e ricostruito il problema la coppia terapeutica decide (consciamente e inconsciamente), di comune accordo, su cosa lavorare.

Ricapitolando: il paziente mostra la sua fragilità e chiede aiuto; il terapeuta mostra la sua saggezza, la pipa, la barba folta e i suoi attestati appesi al muro in carta pregiata e offre il suo aiuto. Tutto questo, però, all’interno di una cornice cooperativa: entrambi si impegnano a rispettare le regole più o meno esplicite del setting, compresa quella relativa a chi dà e riceve aiuto (al di là di Ferenczi non mi viene in mente nessun’altro che abbia provato a invertire questo particolare assetto relazionale). Per cui: asimmetrie sì, ma all’interno di un contesto simmetrico. Insomma, un delicato equilibrio.

Facciamo finta che tutto questo si ripeta per quindici anni circa, per due o tre volte a settimana. Facciamo finta che il paziente sia un promettente ma ribelle-al-punto-giusto ragazzone belga di buona famiglia e lo strizzacervelli un austero e lungagnone psicoanalista ortodosso. Facciamo finta che si incontrino la prima volta per volere del padre del paziente quando il paziente ha 14 anni. Facciamo finta che il terapeuta osservi questo ragazzone diventare un uomo, alla soglia dei 30 anni. Facciamo finta che l’uomo in questione decida, nel frattempo, di abbandonare la professione paterna a cui era inesorabilmente destinato (prima grande ribellione). Facciamo finta che il rapporto tra questi due si interrompa per tre anni e facciamo finta che riprenda il suo corso, anche se solo per una seduta, esattamente tre anni dopo. Facciamo finta (ma a questo punto avrete capito che non stiamo facendo finta) che Abrahams decida di ribellarsi una seconda volta all’autorità, che questa volta prende la forma del lungagnone dott. Van Nypelseer.

Nella stanza della psicoterapia:

Voglio che qualcosa sia messo finalmente a punto. Ho seguito le sue regole fin qui, bisognerà adesso che lei tenti…Abrahams irrompe nella stanza del dottore e ha intenzioni serie: vuole rinegoziare le regole del setting.

Mi sono affidato a un uomo di scienza e vorrei sapere in definitiva di che si tratta, perché non sono più del tutto convinto che questa “scienza” non sia roba da ciarlatani… Vuole ottenere il controllo della situazione e vuole che il dottore gli renda conto dei quasi quindici anni di trattamento.

Lei ha abusato di me; le dirò che mi ha un po’ truffato, se si dovessero mettere le cose sul piano giuridico, perché lei non ha mantenuto i suoi obblighi, lei non mi ha affatto guarito…Non è difficile immaginare l’atmosfera di questo incontro da resa dei conti: Abrahams attacca, il dr Van Nypelseer si difende. Salta la cornice simmetrica di cui sopra; evidente si mostra il disaccordo e lo scontro che ne segue. Abrahams contesta il metodo e contesta il risultato. Si sente di non essere guarito. Probabilmente si sente preso in giro; e da qui la rabbia calda ma controllata contro lo strizzacervelli. Questa è la dimensione dello scontro che chiamerei rivendicativa: si tratta di una persona che protesta nei confronti di un’altra che non è stata ai patti (vengo qui due tre volte a settimana per quindici anni a patto che tu sia capace di guarirmi). Mi sembra una rivendicazione da fallita cooperazione: Abrahams è arrabbiato perché si sente abusato, truffato.

Ma che cos’è la realtà? Bisognerebbe che prima c’intendessimo. Io so una cosa, dal punto di vista della sua realtà, lei è molto in collera, fa una fatica pazzesca a dominarsi e sta sicuramente per esplodere; sta per scoppiare, è sotto pressione, si sta snervando, e questo non serve a niente: non le voglio del male, non c’è alcuna ragione, non sono mica suo padre…In questo passaggio, Abrahams inverte l’assetto relazionale. Quindici anni di psicoanalisi gli permettono di utilizzare e con una certa disinvoltura lo stesso armamentario del dottore: interpreta, affonda il coltello nel rimosso del dottore, lo punzecchia, lo provoca. Mi sembra che la finalità sia sempre quella di riconquistare almeno un pezzo di quel potere interpretativo e tecnico che aveva consegnato, quindici anni prima, al suo curante.

Ma lei ha paura. E la libido, cosa ne fa della libido? Crede che le voglia tagliare il pisellino? Ma no!(…) dottore io le voglio bene, ma lei, lei non vuole bene a se stesso. Lo stesso gioco di prima. Quello di Abrahams è, a tratti, un atto teatrale. Anche qui interpreta, colpisce, ironizza. Dicevamo: è una rabbia calda, ma controllata. Questa dimensione del dialogo è quella che chiamerei interpretativa-teatrale: il paziente mette in scena una seduta psicanalitica invertendone le regole di base.

Non sono pericoloso per il piccolo minchione (…) anche lui ha sofferto; non ho nessuna voglia di picchiarlo…ma il dottore, lo psichiatra, colui che ha preso il posto del padre, questo merita dei calci in culo…Qui Abrahams sembra che operi una sottile differenziazione: dice di non essere risentito con l’uomo che ha sofferto ma con l’uomo che gioca a fare il dottore. Sempre nelle sue parole:

Lei mi ha obbligato a voltare le spalle e non è così che si può guarire la gente. È impossibile perché di fatto, vivere con gli altri significa saperli guardare in faccia (…) lei mi ha fatto disimparare perfino il gusto di cercare di vivere con gli altri o di affrontare la gente faccia a faccia, e questo è il suo problema! (…) sarebbe stato proprio stupido a darmela l’autorizzazione di voltarmi, di liberarmi, dal momento che io la nutrivo, lei viveva alle mie spalle, mi pompava, io ero il malato, lei era il dottore; lei ha alla fine capovolto il suo problema infantile, essere il bambino faccia a faccia con il padre (…) Sono parole che potrebbero essere utilizzate per muovere una critica perfino tecnica al dispositivo psicoanalitico e nello specifico all’utilizzo dell’iconico lettino. Ma, a mio parere, la critica di Abrahams si muove a un livello che trascende la teoria della tecnica e che affonda nella dimensione più profonda e fondativa dell’esistenza umana: quella che potremmo chiamare la dimensione intersoggettiva dell’esperienza.

Sartre, proprio nel numero della rivista al cui interno si trova il dialogo psicoanalitico, lo dice meglio di tutti:

Alcuni parleranno di transfert mal liquidato, ma che cosa rispondergli se ci dice che la guarigione del malato deve incominciare dal guardarsi in faccia e divenire un’impresa comune dove ciascuno accetta i propri rischi e si assume le proprie responsabilità? (…) che si proponga a lui, Abrahams, questa interpretazione, nel corso di una lunga avventura a due, nell’interiorità, e che non gli accada, anonima, impersonale, come una parola di pietra. Questo soggetto desidera comprendersi in quanto soggetto ferito, deviato, in assenza di una collaborazione intersoggettiva, “passa all’atto”: questo significa capovolgere la prassi e nello stesso tempo la situazione. Nel dialogo i ruoli si capovolgono e l’analista diventa oggetto. Per la seconda volta l’appuntamento dell’uomo con l’uomo è mancato. Questa storia che alcuni giudicheranno buffa è la tragedia dell’impossibile reciprocità.

Che la vicenda di Abrahams instilli in noi tecnici della salute mentale il dubbio. Il dubbio sul nostro sapere; il dubbio sull’uso che ne facciamo di questo sapere di fronte alla persona che incontriamo e che ci chiede aiuto. Il delicato e strano equilibrio di cui parlavamo prima è un equilibrio che dovrebbe farci oscillare e renderci consapevoli di questo esercizio di oscillazione: a tratti posso pendere dalla parte della tecnica, del come si fa; a tratti mi sarà necessario pendere dalla parte della soggettività che eccede la tecnica e, quindi, chiedermi non tanto come si fa a guarire questo disturbo ma chi è questo persona che ho di fronte e chi sono io per lei: appunto, l’enigma dell’intersoggettività.

Niente di magico e spirituale, anzi. Si tratta, per l’appunto, di un esercizio: fare pratica di pensiero debole direbbe il filosofo Pier Aldo Rovatti. Prendere distanza dalla tecnica, immergersi nella dimensione profondamente interpersonale dell’esperienza per costruire e ricostruire costantemente questa fragile sensazione di reciprocità con l’Altro.

Gianluca D'Amico

Psicologo, psicoterapeuta cognitivo-evoluzionista. Vive e lavora a Torino. Si occupa di sostenibilità delle cure in salute mentale, di storia ed epistemologia della psicoterapia e della psichiatria.

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