“…è un concetto vago, ma nelle scienze umane la vaghezza è un pregio, perché le esperienze umane non sono esatte” (Tonino Griffero).
Quello di “atmosfera” in senso filosofico e psicopatologico è certamente un concetto vago, e lo stesso Tonino Griffero (oggi, come ricordato da Gilberto Di Petta, lo studioso con all’attivo il maggior numero di pubblicazioni riguardanti questo tema) lo ha sottolineato così, nel corso della sua serrata esposizione durante la giornata di apertura del corso residenziale di psicopatologia fenomenologica 2024, l’annuale rassegna che da ormai 23 edizioni si tiene a Figline Valdarno (FI).
Si tratta, appunto, di un concetto vago; eppure proprio questa sua vaghezza ne costituisce il principale pregio, nonché la base della possibile applicabilità in ambito psicopatologico, poiché essa è sinonimo di una elementare conformità alle esperienze umane, la cui refrattarietà all’esatta enunciabilità è pari forse solo all’ostinazione di chi ancora pretende di considerarle come se, al pari degli ambiti di studio delle scienze naturali, esse fossero nettamente misurabili e distinguibili le une dalle altre.
L’intervento di Griffero si è sicuramente distinto per la consueta mole di riferimenti storico-concettuali e di cenni marcatamente teorici, fedelmente riassunti nelle circa due ore dedicate all’esposizione e alla relativa discussione; eppure forse è proprio questo inno alla vaghezza, pronunciato con fermezza pur senza particolare risalto (e in seguito ripreso anche da Giampaolo Di Piazza, in veste di moderatore), che potremmo pensare di erigere a portavoce di una due giorni di conferenze che hanno visto confrontarsi filosofi e professionisti della salute mentale.
Le esperienze umane non sono esatte, e questa forse rappresenta già proprio una delle poche ed essenziali verità che a noi è consentito dire intorno ad esse.
Tutti gli autori in seguito evocati da Griffero (su tutti i pionieri Schmitz e Böhme), così come gli interventi successivamente tenuti da Guenda Bernegger (L’atmosfera: spazio del possibile) e, il secondo giorno, da Gilberto Di Petta (La “diagnosi atmosferica” in psicologia e psichiatria clinica), si sono mossi sullo sfondo di questo assunto tanto elementare quanto per lo più sciaguratamente trascurato. Proprio come nelle atmosfere, infatti, la fenomenologia ci ricorda da tempo che nell’esperienza umana tutto è già da sempre assieme. Tutto è assieme, e non si può, con ciò, non produrre quel che solo in forma appunto vaga, e nelle sue mille possibili declinazioni (soprattutto in ordine alla pragmatica del linguaggio, dunque all’uso contestuale che si intende fare del termine) possiamo appunto chiamare “atmosfera”.
Di qui l’invito, da parte di Giampaolo Di Piazza, a considerare che probabilmente l’indefinito non è affatto sinonimo di inessenziale, poiché talvolta essenziale può essere proprio il vago, e che anzi forse è proprio questo che le atmosfere sembrano comunicarci, quando, accettandole, accogliamo necessariamente il dono dell’indefinitezza e quello del rischio.
Le atmosfere non hanno un’accezione metaforica, non almeno in senso letterale, secondo cui metafore sarebbero solo i frutti della sostituzione di un termine proprio con uno figurato; le atmosfere piuttosto sono metafore, se con ciò si intende dire che lo sono in forma assoluta (un concetto di Blumenberg, ricorda Griffero), cioè nella misura in cui esse non potrebbero dirsi né tradursi altrimenti, come quando “mi sento giù” e tutti i modi e i termini che potrei scegliere per indicare il mio affossamento e la mia pesantezza sarebbero solo dei rimaneggiamenti, delle raffinazioni di quel dato grezzo e immediato che tutti conosciamo e che facilmente, “a naso”, sappiamo percepire in noi e nell’altro: io mi sento giù, tu sei giù.
“A naso”: Griffero ci ricorda che fu proprio Tellenbach, uno psicopatologo, il primo a parlare di atmosfera nelle scienze umane, e che nel farlo egli sottolineò e privilegiò l’importanza del sensorio orale, delineando il ruolo di immenso rilievo che fin dalla primissima infanzia olfatto e gusto intrattengono nelle esperienze primarie (con, su tutte, quella dell’allattamento). Da qui, Tellenbach giunse ad affermare che, nella relazione intersoggettiva, gli esseri umani qualificano atmosfericamente il loro rapporto con gli altri, e che dunque lo psichiatra o lo psicologo, nella fattispecie, potrebbero ad esempio cogliere l’atmosfera pre-psicotica già solo “fiutandola”.
Proprio alla diagnosi atmosferica di Tellenbach siamo stati poi ricondotti da Gilberto Di Petta, nel corso del suo intervento, in cui è stato proprio sottolineato come essa sia stata un primo, eccellente modo di indicare quel “tra” riscontrabile in sede diagnostica, quello che comunemente verrebbe inteso come un “di più” a margine dei parametri, dei sintomi e dei criteri, e che invece costituisce proprio l’ossatura stessa di quella traccia da seguire, appunto, “fiutandola”, come quando entriamo per la prima volta in casa di qualcuno e subito cerchiamo di farci un’idea di “che aria tira”.
Diagnosi dunque come un momento sensorio che, ricorda Di Petta, già da lungo tempo i grandi nomi della psicopatologia non avevano esitato a presentare con forme espressive quali appunto “atmosferica” (Tellenbach), o “per intuizione” (Wyrsch), o ancora “per penetrazione” (Minkowski), “per sentimento” (Binswanger)… tutti modi di indicare il processo psicodiagnostico che riecheggiano assieme nelle successivamente ricordate parole di Arnaldo Ballerini, quando quest’ultimo mostrava che non è individuando la presenza o l’assenza di tutta una serie di sintomi, bensì cogliendo l’atmosfera autistica che si può arrivare a compiere una diagnosi di schizofrenia.
Usare dunque espressioni come “questo qui mi puzza”, “non mi piace”, o “mi ha fatto entrare”, “l’ho toccato”, “è spigoloso” ecc. non costituisce un accessorio cascame neoromantico, indice di ridotta scientificità, ma piuttosto il modo più appropriato e pertinente di indicare ciò che avviene nel processo diagnostico, tra due presenze umane che si incontrano e che a monte di tutto “respirano” la stessa atmosfera, sia essa già presente oppure ingenerata in quel loro stesso incontrarsi. E se è vero che oggi si rende necessario l’intervento della filosofia per, assai faticosamente, tentare di riportare nella psicopatologia un discorso che proprio in seno a quest’ultima era nato, allora la psichiatria (e, assieme ad essa, la psicologia) deve riconoscere le proprie colpe, e farsi carico di una grande responsabilità, poiché in ciò ne va niente meno che delle sue stesse sorti.
Questo ritengo possa dirsi, in estrema sintesi, il senso fondamentale di quanto detto e di quanto emerso nelle due giornate di convegno entro la cornice ormai non solo architettonicamente storica di Villa Casagrande.
Rimane però, credo, un non detto facente capo proprio a un’atmosfera: non necessariamente l’unica, come ha così bene illustrato il professor Griffero, ma solo una delle possibilmente coglibili, la cui metafora più fortemente rappresentativa, probabilmente, è proprio quella della cornice. Una cornice in particolare, per l’esattezza, quella portata all’attenzione dei presenti da Guenda Bernegger in apertura del proprio intervento: di pietra e vuota, priva di un quadro, situata su una parete della Sala Bianca, sopra all’ampio camino; essa mostra unicamente il pallore del muro su cui prende spazio, quasi a volerlo presentare, o a suggerire la possibilità di riempirlo, di animarlo, ma anche di esserne assorbita.
Ci siamo lasciati con un misto di speranza e di angoscia, o di qualsiasi altra atmosfera sia stato e sarà possibile fiutare nelle belle parole ormai fluite e ora in fase di sedimentazione, o in quel monito, così sordo, marginale e lapidario come il muro su cui si trovava. Una cornice e un muro, un muro dentro e attorno una cornice vuota, muro la cornice stessa con la sua pietra, sostegno e incombenza assieme. E se è vero che questa potrebbe apparirci come un’ambiguità semantica, dovremmo anche ricordare che a tale ambiguità pare essere votato il registro delle cose del mondo, già solo per il fatto che esse ci si danno nella loro indefinitezza, e che noi è con e presso noi che le incontriamo. Come al solito, sta appunto a noi, dove forse però per “noi” dobbiamo ancora finire di accordarci su chi o che cosa intendiamo.