La morte è il grande rimosso della società occidentale; e proprio la morte, con tutto il suo corteo di prefigurazioni e immaginari, mai come adesso persevera nella sua presenza costante nel quotidiano di ognuno, quasi a rivendicare libbre di carne ed esistenza estirpate dalla nostra dimenticanza.
La sua realtà è un mistero “attorno al quale, nel corso dei secoli, ha avuto luogo una sacralizzazione, (…) l’origine dei riti e dei rituali funebri, le credenze rassicuranti, i comportamenti simbolici e religiosi” (Ries, 2012, p.14).
L’uomo preistorico si configura anche come homo symbolicus e religiosus (Ivi, pag.21); osservando le tombe dell’uomo neandertaliano emerge la consapevolezza del rapporto di alterità creato dalla morte e la coerenza di un pensiero che lo portava a preparare, corredare e ritualizzare la sepoltura.
Lutto deriva dal latino lugere, piangere, e rimanda a qualsiasi segno esteriore con cui si manifesta il proprio dolore, poiché è lo spazio dove la sofferenza si trasferisce e trasforma anche in espressione corporea nelle usanze tradizionali. In presenza del lutto, i riti di separazione, margine, e reintegrazione offrono da sempre una strada difensiva e nello stesso tempo di attraversamento del dolore, preservando l’identità propria e della comunità.
Attraverso il rito l’uomo risponde alla crisi della presenza, ovvero all’incapacità di oltrepassare il trauma delle vicende che il soggetto vive con angoscia poiché minacciano il suo essere al mondo; perché “non si sa chi si è senza un sistema di riferimenti – in parte simbolici e rituali – che diano orizzonte al vivere, domesticità e senso al proprio essere-nel-mondo” (Jervis, 2011, pag.92)
Ed il lutto è “per i sopravvissuti è uno stato di margine, e in esso entrano attraverso riti di separazione e ne escono mediante riti di reintegrazione” (Von Gennep, 1981, pagg.127-128).
I riti funebri ci accompagnano da sempre, e da sempre i simboli del mito sono realtà incarnata che viene agita nel rito; in esso si vive un tempo necessario e sospeso, condividendo in presenza, con gesti e parole, i passi di sofferenza della condizione di sopravvissuto che ancora non è tornata ad essere vita.
Viene condiviso lo spaesamento, il dolore, l’angoscia, il rimpianto; le parole vengono superate dallo sguardo, dal gesto, dallo scambio simbolico, da codici linguistici che disegnano i nuovi scenari segnati dall’assenza e riplasmano, culturalmente ed emotivamente, lo strazio naturale prodotto dal fenomeno.
Il rito svolge una funzione di elaborazione e catarsi: “per la durata del lutto, i parenti del defunto costituiscono una società speciale situata tra il mondo dei vivi da una parte e il mondo dei morti dall’altra”; le lacrime si impastano in bocca fino alla sazietà, mentre passo a passo si tenta di risolvere la dialettica tra assenza e presenza, tra il lasciar andare il corpo nudo ed il trattenere il corpo di memoria. Da questa società si esce “più o meno velocemente a seconda del legame di parentela”, e soltanto “attraverso riti appropriati” (von Gennep, 1981, pag.128).
Il corpo viene guardato, toccato, lavato, vestito; si ripercorre il legame con lui aspergendo di lacrime i ricordi durante la veglia, o nell’incontro con gli altri accorsi a rinsaldare il legame ed il ricordo accompagnando chi non c’è più nell’ultimo viaggio. La vista, il tatto, la presenza si mescolano agli sguardi, al contatto ed alla presenza degli altri con i quali si condivide la percezione dell’assenza, la memoria del legame; le parti di un dialogo e di un grido che divengono pianto condiviso e che rendono sazi nel digiuno dato dall’inespresso emotivo.
Il cordoglio è cor-dolium, una doglia che colpisce il cuore, parola che restituisce con efficacia la realtà del duro travaglio interiore che ognuno di noi deve attraversare razionalmente per affrontare lo spaesamento, il sentimento del vuoto e l’assenza totale della persona amata che muore preservando la propria individualità senza smarrirsi dentro il dramma psico-fisico del dolore.
É una lacerazione che chiede spazio e voce per non risolversi in sentimento del vuoto:
“nella crisi del cordoglio la presenza storica si smarrisce in comportamenti alienati: l’istituzione della presenza rituale del pianto rende possibile la catabasi verso questi comportamenti in rischio di alienazione, e al tempo stesso l’anabasi e la ripresa cioè la loro reintegrazione culturale e il loro ridischiudersi verso il mondo dei valori. È sul piano della presenza rituale del pianto che infatti viene compiuta la conversione del planctus irrelativo nel planctus ritualizzato, ed è su questo stesso piano che viene conquistato il discorso protetto della lamentazione” (De Martino, 1975, p. 84).
La persona che muore diviene, da soggetto, oggetto di dolore in tutta la sua interezza; e quel suo divenire oggettivato è la terra nutriente e germinativa di cura di chi rimane in vita. Nel vedere, toccare la sua morte in uno spazio ritualizzato posso ricomporre con la mia memoria la frattura nel tempo che ha creato la sua assenza; guardare il corpo come fosse ancora identità, toccarlo per varcare meglio il piano di realtà della sua e nostra nuova condizione.
Tutto questo, nelle attuali condizioni non è possibile.
Spaventati dalla frantumazione del tessuto sociale, dall’assenza di certezze ed in continua rinegoziazione del nostro senso di libertà, veniamo a nostra volta sempre più frantumati dentro una crisi della presenza senza sponde salde di recupero dal naufragio.
Nel momento presente, mentre i nostri spazi di vita appaiono desertificati dalla necessità di distanza come forma preventiva al contagio, emergono prepotentemente nell’esistenza di ognuno stati d’animo caratterizzati da angoscia e paura; e soprattutto chi vive sventuratamente la perdita di una persona amata si trova a dover affrontare anche lo scacco di esequie ridotte all’osso o del tutto assenti. L’assenza scambiata con un altro vuoto.
La collettività vive l’oggettivazione medica della morte, condensata e resa quasi sterile da numeri e tabelle: gli organi di informazione da mesi con ritmo costante scandiscono i numeri. Il morto diviene dato statistico, corpo medicalizzato, corpo sottratto alla vista, deceduto. É parte integrante di un asettico bollettino ordinatamente dettato in scansioni temporali; è narrazione oggettiva scarnificata del simbolico, dell’emotivo, dell’identificante.
I giornalisti si sono adeguati da subito a questa disumana oggettivazione che ha amputato ulteriori passaggi: nessuno narra le storie dei morti, nessuno pubblica i frammenti delle loro vite, le loro immagini, le parti di un cordoglio che potrebbe, attraverso la commossa condivisione, dare maggiori strumenti di lettura e consapevolezza. Le tabelle dei caduti sono dati scarnificati di presenza che non offrono quella consapevolezza esistenziale soggettiva che permette di bilanciare la paura con la compassione, l’angoscia con la resilienza.
La distanza emotiva e la scarnificazione dell’identità sono le cifre identificative del nostro modo di non raccontare questa pandemia, nell’intento, forse, di addomesticare l’angoscia negando la narrazione delle singole esistenze.
La morte viene restituita incasellata in grafici, ridotta a numero, corpo sottratto alla vista, epitaffio scarno comunicato per telefono da uno sconosciuto, corpo sottratto alla vista: si sta distanti da chi muore e si vive poi il cordoglio lontani dal frastuono del calore rituale.
I morti di covid spariscono lasciando una lacerazione senza bordi definiti; difficile ricomporre i frammenti di un dolore quando lo spazio rituale è abitato solo da vuoto e silenzio.
Solo e nudo è chi muore a distanza, e solo e nudo è chi gli sopravvive; e come monadi passibili di contagio malato, siamo posti a distanze siderali dal corpo dell’altro, dai contatti nutrienti ed identitari della vita di prima.
La morte è un dato costitutivo che si annida all’interno di ogni nascita e provare angoscia è educarsi al confronto con il nulla, ma “la morte della persona cara (…) è l’incrinatura più profonda della vita fenomenica. Sono rimasto solo allorché, lasciando solo il morente nell’ultimo istante, non l’ho potuto seguire (…) Ciascuno muore solo” (Jaspers, 1978, II, pag.197)
La morte di una persona che si ama è di per sé una ferita insanabile; è un’esperienza di sofferenza di per sé inevitabile, che attraversa e trasforma nel profondo l’anima di chi rimane in vita.
É una “situazione-limite” intollerabile e invalicabile che ci disarciona con spaesamento dalla condizione di vita precedente l’accadimento provocando uno stato d’animo tormentato che potenzialmente unisce nel sentire; perché “l’elemento comune a tutte le situazioni-limite è questo, che esse suscitano una sofferenza” (Jaspers, 1950, pag.287). Esse “Sfuggono alla nostra comprensione, (…) sono come un muro contro cui urtiamo e naufraghiamo. Non possiamo operare in esse alcun mutamento, ma dobbiamo limitarci a considerarle con estrema chiarezza, senza poterle spiegare o giustificare in base a qualcosa” (Jaspers, 1978, II, pag.185-86).
Ma dentro questo tempo pandemico, ancora di più: perché affrontare la morte di una persona che si ama, significativa, con la quale si ha un legame, si somma alla difficoltà o impossibilità di attraversare la sofferenza munito dei riti funebri collettivi che permettono di accompagnare noi e il defunto, consapevolizzare l’irrevocabile ed iniziare il cammino di elaborazione del lutto. Il rituale funebre attesta e scrive l’inizio di una trasformazione che riguarda i luoghi ed i corpi; sono incipit di un’elaborazione che riguarda il soggetto e la collettività.
Il simbolo, comunicandoci la nostra natura paradossale da sempre al centro della speculazione filosofica, ci mette in contatto con la nostra situazione esistenziale dandole significato oltre la sua contingenza particolare; è quel ‘mettere insieme’ elementi diversi, restituendo significati ulteriori, una lettura diversa. Il ‘passaggio’ del rito che muta il vissuto aprendo un varco trascendente dentro la contingenza; perché il rito è uno scambio fisico necessario, un ponte visibile che permette di esprimere e gestire l’inesprimibile della morte (per noi solo un concetto, perché facciamo esperienza solo della morte altrui) e di condividere con gli altri mancanza e sofferenza.
Nell’attraversare lo strappo, la crisi della presenza di demartiniana memoria oggi propaga tutta la sua eco senza possibilità di trasformare la sofferenza; a causa del rischio pandemico, si ritualizza la morte di chi è stato contagiato in maniera mutilata.
La Pietas lascia spazio all’inumana Terrestra come nel romanzo di Jünger, è tutto in mano alle pompe funebri; gli ultimi discorsi che il corpo immagini senta sulla terra come in un vecchio e commovente racconto di Buzzati, l’ultimo sguardo sulle sue spoglie prima che il feretro venga chiuso per sempre e consegnato alla vista dei familiari. Nella riduzione del rito, senti amputato un arto che non conosci; ti manca il passaggio a casa con l’abbraccio ai convenuti durante la veglia, ti manca l’incubatio notturna con il tuo personale e significativo eroe, ti manca l’aggregazione del rito per sentirti poi riconsegnata al mondo. Nel sostare sulla soglia si consuma una disumanizzazione derivante dalla necessità della situazione di emergenza mondiale; nel tuo sentire, avverti solo l’urgenza di opporti e di mutare la ferita in segno, il segno in gesto, il gesto in rito.
Che cosa rimane?
Nel chiederti questo, ascolti il nuovo suono del vecchio tuo mondo che va a disfarsi, ma tutto dall’assenza diviene piano piano nutrimento del corpo in attesa; il pianto che sazia, il vuoto fertile, il silenzio ascolta. Perché “la morte di qualcuno riscrive tutte le relazioni con quelli che restano. Che cosa resta?” (Candiani, 2018, pag.66).
Resta il rifiuto alla fuga ed alla rassegnazione di fronte a questa invalicabile, intollerabile ed invalicabile situazione-limite poiché è proprio nella consapevolezza che “l’esistenza raggiunge la sua profondità” (Jaspers, 1978, II, pag. 635): e “ciò che esteriormente è determinazione e limite, interiormente è manifestazione dell’essere autentico” (Jaspers, 1978, I, pag. 127).
Rimane ascoltare la propria sofferenza come spazio di apertura ed energia nascosta del mondo stesso (Pareyson, 1995, p.475), ricreare spazi simbolico-rituali di significazione, un pensiero narrativo che consegni il passato dentro un nuovo innesto; resta il non rinunciare al viaggio di cordoglio ricreando spazi di rito che riannodino il legame. (C’è il corpo, la presenza, il gesto e la memoria.)
Rimane il ricordare che dagli albori ci accompagna il simbolo, e che nel rito riesce a cucire da millenni un linguaggio che è un rammendo per l’identità: e per questo è importante dare voce e spazio a riti anche intimi e personali che rievochino il legame ed aiutino il distacco. In questo modo, oggetti, doni, gesti e racconti a voce nuda concorrono a riannodare il presente con la memoria, ricamando una narrazione che sia trama posta a proteggere il presente.
Rimane non sprecare questa sofferenza, poiché è proprio nella carne del dolore che è possibile toccare la propria compiutezza e chiarificare l’esistenza con volto rivolto verso la trascendenza e volgersi dentro una speranza incondizionata che non abbia né desiderio né rivendicazione (cfr. Marcel, 1980, pag.67); e quindi vivere la sofferenza come cifra di possibilità.
La sofferenza è la feritoia dalla quale si può aprire uno spazio autentico, intimo con sé stesso dove avviene l’incontro e non lo smarrimento.
“Spesso le esperienze dolorose di perdita e di abbandono, se percepite senza nome e senza giudizio, si trasformano in formidabili esperienze di contatto con qualcosa che conta più di noi, che è più di me e di te, e anche di quel più di te e me che è noi, qualcosa che non è una somma ma una sottrazione, di peso, di misura, di nome, di forma, e che non comporta alcuna perdita di identità, ma anzi ci rinasce”. Perché le esperienze-soglia “assomigliano ad aprire la parola ‘morte’, guardarci dentro e scoprire i semi di una melagrana” (Candiani, 2018, p.70).
Rimane il dare spazio, poeticamente, al cor-dolium, al dolore del cuore abitandolo come, fosse un luogo, un altro tipo di nascita:
“Qual è il luogo della morte? Lasciar depositare la notizia è un percorso lungo, che lo sappiano le ossa, gli organi, la pelle, gli strati di noi. Che si inserisca la notizia nella memoria, piano piano, senza l’esplosione del mattino. Lo chiamano lutto. Se accogli i suoi inviti, le sue chiamate a sentire la morte, interrompere tutto, sedersi o sdraiarsi e assaggiare l’assenza, allora è un dono. Se fingi che non ti chiami, se riempi ogni attimo di distrazione, ti fa a pezzi, brandelli di te che non stanno nell’intero del reale cambiato: aggiornare il file, con questo buco che vuole spazio, vuole ospitalità. Spesso si pensa che la soluzione al dolore sia altrove, ma è nel dolore la soluzione del dolore, sentendolo, abitandolo, assaporando, a poco a poco diventa parte di noi, non più un estraneo, ma un ospite scomodo, irruente, tempestoso e infine un amante e dopo la fine di un pezzo di noi”. (Candiani, 2018, p.7).
Rimane recuperare uno spazio sacro che intrecci il tempo vissuto della memoria personale con gesti intensi e antichi che ricamino una narrazione ulteriore che vada oltre quella possibile, la vita attiva che è in grado di far scaturire la sofferenza oltre le “prigioni della finitezza” (Jaspers, 1971, p.25)
Nella mia esistenza, ho reso spazio, e luogo, questo vuoto e l’ho abitato nel tempo del nostro rito di passaggio necessario; ho riconsegnato mio padre alla terra, vestendolo in legno d’ulivo, considerando il suo corpo ancora persona e raccogliendo a mani nude la sua terra messa in corredo accanto alle sue cose, simboli e contrassegni di un legame che non intendeva dimenticare nulla con l’assenza. Lo abbiamo salutato in pochi, distanti e presenti, fissi negli occhi ascoltando parole al cielo nel suo, nostro giardino.
BIBLIOGRAFIA
Buzzati, D. (1968), ‘I due autisti’, in La boutique del mistero, O. Mondadori, Milano
Candiani, C.L., (2018), ‘Un altro tipo di nascita’, in Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione, Einaudi, Torino
Marcel, G. (1980), Homo viator, Borla, Roma
De Martino, E. (1975), Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Bollati Boringhieri, Torino
De Martino, E. (1951-52) Angoscia territoriale e riscatto culturale nel mito achilpa delle origini. Contributo allo studio della mitologia degli aranda, in Studi e Materiali di Storia delle religioni, 23, Lecce: Argo.
Jaspers, K., (1950), Psicologia delle visioni del mondo, Astrolabio, Roma
Jaspers, K., (1971), Ragione ed esistenza, Marietti, Torino
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Jervis, G. (2011), Il mito dell’interiorità. Tra psicologia e filosofia, a cura di G.Corbellini e M.Maraffa, Bollati Boringhieri, Torino
Jünger, E. (1985), Il problema di Aladino, Adelphi, Milano
Pareyson, L. (1995), Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino, 475-476
Ries, J. (2012), Preistoria e immortalità, Jaca Book, Milano
Von Gennep, A. (1981), I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino