Quali misteri avvolgono la follia! […] quel qualcosa, senza il quale il corpo può vivere, ma che in assenza di corpo non può esistere, risultava in loro del tutto assente.
New York, un tardo pomeriggio d’inizio autunno del 1887. Una giovane dal viso cereo avvolta in abiti consunti suona il campanello di una pensione per donne indigenti. Si presenta come Nellie Brown, chiedendo ospitalità per qualche giorno: un tetto sopra la testa, un letto, un pasto caldo. Non ha bagagli con sé, andati perduti chissà dove. All’ingresso lamenta forti emicranie e ha un fare piuttosto stravagante: ripete senza sosta che da un po’ di tempo tutto è così triste e deprimente; e poi lì dentro le sembrano tutte pazze e orribili da suscitarle paura. Sostiene di non avere mai lavorato, nemmeno ha idea di come si faccia.
Consumata la cena, chiede di poter dormire sulle scalinate, ché di salire nella stanza al piano di sopra proprio non vuole saperne. Queste indisposizioni iniziano ad agitare le altre donne, e nel volgere di poche ore la gran parte la isola in preda al terrore; alcune ne fanno oggetto di scherno, perseguitandola con domande e battute crudeli. Nessuna – tranne una sola, lodevole eccezione – è capace di mostrarle empatia. D’ora innanzi dovrà farci l’abitudine, la giovane Nellie Brown, a questo genere di trattamento.
L’indomani, due poliziotti – allertati dalle donne lì alloggiate – la prelevano per scortarla al cospetto di un giudice che valuta con coscienza il suo accidentato caso. Per quanto attento si possa mostrare l’uomo di legge, la procedura burocratico-custodialistica è inesorabilmente avviata.
Tappa successiva: il padiglione dei malati di mente dell’ospedale Bellevue, sezione femminile.
L’accoglienza è tetra, come le possenti porte in ferro addobbate dai catenacci e incastonate nelle bianche pareti che perimetrano i nudi stanzoni senza mobilia della sezione: “Ti trovi in un istituto per persone malate di mente.” – chiosa l’infermiera – “Trascorrerà molto tempo prima che tu esca di qui se non fai quello che ti viene detto. Ora: puoi toglierti il cappello di tua spontanea volontà o dovrò usare la forza”.
Poco dopo hanno luogo un paio colloqui con i medici che adottano una serie di domande da protocollo e anamnestiche dalle quali, alfine, è cavata una diagnosi sentenziata con nonchalance: demenza, di quelle senza speranza.
Dormire si rivela un’impresa titanica: per tutta la notte le infermiere spalancano continuamente le porte delle cellette e dalle misere finestre sbarrate giungono di continuo le urla straziate provenienti dal limitrofo padiglione maschile.
Tuttavia, si tratta ancora di pazientare pochi giorni e l’agognato obiettivo di Nellie Brown sarà finalmente raggiunto: farsi internare nel famigerato manicomio dell’isola di Blackwell, da cui giunge voce che il trattamento del personale rivolto alle internate sia oltremodo inumano e violento.
Ma chi è davvero questa giovane di ventitré anni? E perché aspira a entrare in quello che si preannuncia essere un inferno sine die?
Appena pochi giorni prima, il direttore del celebre quotidiano New York World convoca Nellie Bly (al secolo Elizabeth Cochran) per proporle una missione speciale: infiltrarsi in incognito nell’istituto psichiatrico femminile dell’isola per descrivere le condizioni di vita dal suo interno. Starà alla sua creatività pianificare la strategia ad hoc per guadagnarsi l’ingresso, mentre il giornale – le assicura il direttore – provvederà unicamente ad assicurarsi di trarla in salvo, non prima però di averne tratto le preziose informazioni.
Allorché, l’intrepida Nellie si mette prontamente all’opera. Mediante una sorta di metodo Stanislavskij ante litteram (tramite esercizi corporei, di visualizzazione allo specchio e la lettura di storie di fantasmi) tenta l’immedesimazione in quel mondo, sconosciuto a sé stessa e ai più, e si immerge nel profondo mare della follia che il binomio potere-ordine (del più forte) ha scientemente occultato, costretto e oltraggiato in luoghi infamanti dove il tempo è (come) sospeso, perlopiù negato.
Lasciato l’ospedale Bellevue e tradotta alfine sull’isola, la giovane investigatrice diverrà testimone delle condizioni di non-vita delle oltre 1600 internate.
L’iniziale preoccupazione della promettente giornalista è quella di riuscire a ingannare anche qui il giudizio di medici “qualificati”; nondimeno, la scarsa fiducia in sé stessa è immediatamente ricompensata, allorquando riesce a gabbare quegli “specialisti” (del nulla) che pretendono di avere prodotto una diagnosi certa. I medici divengono agli occhi di Nellie gli inerti esecutori di un potere impersonale e impunito che si abbatte con la forza di un maglio sul destino delle malcapitate compagne di sventura.
Sono ormai convinta che, se si escludono i casi di persone violente, nessun dottore abbia realmente la capacità di comprendere se una persona sia o meno malata di mente.
Non sfugge all’autrice rilevare la sordida selezione classista che riversa all’interno dell’istituto donne perlopiù indigenti, escluse, straniere, indesiderate, ripudiate: tutte provenienti dai ceti sociali subalterni.
Dopotutto, anche l’esito diagnostico è roba da ricchi, signora mia!, con buona pace di chi ha sempre sostenuto che “la scienza” tutta goda di una eterea castità super partes.
Giunta finalmente a destinazione, non prima di aver assistito a una serie di inverecondi episodi di cui si rendono protagoniste le infermiere ai danni delle internate, la Nostra dismette i panni della folle seguitando a comportarsi secondo il proprio naturale habitus; dopotutto, ella pensa, è un luogo dal quale uscire non è altrettanto semplice come entrarvi: tanto vale comportarsi senza infingimenti di sorta. E Nellie ha ragione da vendere, ché tanto neanche la guardano negli occhi, quelle infermiere e quei medici.
Il seguito del reportage è un resoconto delle sevizie patite dalle misere sventurate e da Nellie in persona che assiste al fenomeno della malattia istituzionale, che divora in pochi giorni l’animo delle internate appena giunte, sprofondandole sul letto della più disperata apatia di un tempo pietrificato che cristallizza i corpi, nella nostalgia perpetua di un ritorno che non avverrà mai.
Al decimo giorno Nellie fa ritorno ritorno a casa fustigata da un vissuto di colpa – condizione per certi versi contigua a ciò che fino al DSM-IV-TR (2000) era rubricata come sindrome del sopravvissuto. Quando le colonne del giornale danno voce ai suoi taccuini, sull’onda della vasta eco mediatica che scuote l’opinione pubblica viene svolta un’indagine presso il manicomio e una commissione decide di stanziare molti soldi per riformare gli istituti di igiene mentale. Così si conclude questo pamphlet di denuncia.
Ma questa non è una storia a lieto fine: occorrono cambi strutturali, profondi, unitamente a una certa temperie culturale, poiché isolare l’istituzionalizzazione della follia – con il suo precipitato di tragedie – a mero atto medico, svia dalla comprensione di quel complesso fenomeno di ingegneria sociale che prevede l’esclusione dei difficili, degli indesiderati. Non si rivelò bastevole la buona volontà di un giudice caritatevole o di una generosa commissione disposta a profondere cascate di dollari per edulcorare il tanfo che emana da un sistema marcescente.
La realtà non è un rassicurante film hollywoodiano in cui pochi attimi prima dei titoli di coda sono “i buoni” ad avere la meglio. Lo rammenta l’esperienza italiana in materia a partire dalla data simbolo del 1978 (fase che può essere retrodatata almeno al 1961 con la prima esperienza di comunità terapeutica presso Gorizia), per certi versi ben lungi dall’essersi del tutto conchiusa, giacché lo spettro strisciante della prassi manicomiale conosce molteplici vie per reincarnarsi in altre forme.
Questa raccolta di memorie è una tragica, attuale sinossi del conformismo e della vigliaccheria dell’essere umano che si trincera dietro il “si fa” e il “si dice” protocollati. Nondimeno, tra queste righe scintillano, per quanto fulgidi, attimi di inusitata empatia e partecipazione umana: soprattutto laddove l’umanità pare precipitarsi nell’oblio.