“In the early years,” she continued, “autism is often mistaken for ADHD. In both cases, children have trouble focusing. You can tell the difference when children interact with each other. Autistic children have a harder time with that. They often talk only about their own interests or seem like little professors. They’re also very sensitive. They can’t stand noise, labels in their clothing, someone combing their hair. Their motor skills are often bad. And they disappear into their own world. Now, people with Asperger’s do seek contact with others. They just don’t know how to go about it. Children with Asperger’s often speak like adults. And they take everything literally. If you say, I’ll be there in a minute, they will hold you to that. When they get mad, they’re hard to calm down. They’re honest, naive, wonderful people—if you treat them right. The three most important rules are as follows: Be nice. Be nice. Be nice.”
(da “The boy who felt too much” di Lorenz Wagner, 2018)
Per esempio se ricevo una persona che non ha un rapporto con me perché io non capisco cosa dice, e che quindi io considero al di fuori della logica, cioè folle, ho due possibilità: o mi metto nella posizione di Kraepelin che, dopo aver passato decine di anni a catalogare le domande di queste persone, le ha classificate in sindromi psichiatriche – e questo è un modo di etichettare, di rispondere all’aggressione che ti fa il malato con la sua follia – oppure, devo considerare che cosa vuole questa persona.
(Basaglia, F., Ongaro Basaglia, F., Pirella A. & Taverna, S., La nave che affonda, Raffaello Cortina Editore, Milano 2008, p.19)
Da psicoterapeuta, ho spesso ravvisato un’inspiegabile mancanza di attenzione da parte delle scuole di specializzazione in psicoterapia nei confronti delle neurodiversità, come se fossero appannaggio esclusivo delle neuroscienze e dell’intervento riabilitativo. Con questo testo Loredana Di Adamo, filosofa e psicologa a orientamento esistenziale e fenomenologico, getta finalmente le basi per una fondazione di una terapia delle neurodivergenze, proponendo una seria e umana alternativa ai correnti paradigmi di matrice neopositivista, inaugurando una clinica dell’incontro col mondo autistico. Un’epistemologia fenomenologicamente fondata si sottrae alla tirannia dell’evidence based e ad uno stile di intervento che mira ad una riproducibilità manualistica. Talvolta i protocolli validati, composti da token e riforzi positivi, rischiano di scadere in un ammaestramento il cui scopo si riduce a rendere la persona autistica meno problematica per il mondo e per la famiglia. Al contrario, l’approccio proposto dall’autrice desidera recuperare la ricchezza della diversità, evidenziando l’attuale distanza dal mondo autistico e tracciando itinerari che colmino il divario.
L’autrice lo dichiara apertamente, si tratta di una missione culturale di portata antropologica, esattamente come lo fu l’introduzione della legge 180, affermazione della rivoluzione condotta dalla psichiatria democratica.
È opportuno che la psicologia inizi ad occuparsi più approfonditamente degli aspetti che riguardano la diversa logica a cui la neurodivergenza rimanda, in modo da costruire una cultura della cura sia prima di tutto indagine del senso dei discorsi e supporto nella comunicazione, affinché si possano gestire al meglio le criticità di interazione, avviando un dialogo possibile con la differenza e giungendo allo stato di verità dell’altro irraggiungibile.
È lungo il solco basagliano che si colloca il messaggio promosso da questo testo, e i numerosi rimandi a Basaglia, Dell’Acqua, Borgna, Venturini (a cui è affidata l’introduzione) testimoniano una presa di posizione squisitamente umana, ermeneutica, di costituzione di senso e di apertura all’incontro, in una società che a più di quarant’anni dalla chiusura dei manicomi ancora fatica ad accogliere l’altro sofferente, confinandolo alla posizione di alieno. Mettere in discussione un mondo capitalistico-occidentale basato sul funzionamento, e promuovere un cambio di paradigma antropologico-culturale nella costruzione di un mondo a misura della neurodiversità, diventa un’impresa da cui non ci si può sottrarre, se non a costo di voltare le spalle proprio a coloro che sono più sofferenti. In piena sintonia con modalità di cura quali il Dialogo Aperto inaugurato da Seikkula, o l’intervento psichiatrico improntato al Recovery, si desidera raccontare di un testimone che passa per le mani degli operatori della cura, nel condurre la missione per un reale incontro con l’alterità.
Invece di razionalizzare la sofferenza o occultarla, bisogna promuovere spazi e modi in cui imparare a gestirla, e prendersi cura dell’immensa fragilità e tensione infinita dell’esistente. Vedere l’individuo in questo modo significa osservarlo nella sua globalità come potenzialità e fragilità, perché «è questa contraddizione che noi siamo che ci fa essere uomini», ed eliminarla è impossibile perché quando togliamo la contraddizione rimuoviamo noi stessi.
Una rivoluzione culturale non può che passare innanzitutto attraverso il dispositivo del linguaggio. Rinunciare al termine “disturbo”, fortemente connotato dal punto di vista patologico, a favore di una “condizione“, apre alla possibilità di immaginare un’esistenza autistica, un mondo autistico caratterizzato da determinate peculiarità: un’ipersensibilità agli stimoli sensoriali e ai cambiamenti; aspetti semantici e pragmatici della comunicazione più aderenti ad un piano letterale; un’attenzione maggiormente selettiva; temporalità e spazialità spaesanti; e così via. Tali tipicità risultano atipie solo se commisurate ad normalità gaussiana, concetto meramente statistico. A tal proposito l’autrice impiega i due termini di “neurodiversità” e “neurodivergenza”: il primo racconta di una modalità dell’essere-nel-mondo unica e peculiare in quanto umana tra gli umani; il secondo ricolloca l’umano entro la cultura d’appartenenza, restituendo il senso di uno scostamento da un modello su base statistica. Il senso è di mettere in discussione l’idea che l’esistenza autistica sia meno adatta al mondo condiviso: che sia, viceversa, il mondo condiviso meno adatto all’esistenza autistica? Il processo di incivilimento si compone di stratificazioni e sedimentazioni progressive, di accomodamenti continui. Potremmo immaginare la celiachia o le intolleranze a determinati alimenti come forme di “gastroenterodiversità”, che se alle quali dapprima il mondo non ha saputo prontamente rispondere, adesso si è molto più preparati, e la qualità della vita di una persona gastroenterodivergente dal punto di vista culturale è sensibilmente migliorata.
L’attenzione alla soggettività non vuole essere una risposta definitiva al problema della conoscenza del dato psicologico, ma piuttosto la possibilità di riportare al centro la vita nel suo carattere di sovrappiù, che sopravanza la generalizzazione e che si fa evento nella fatticità del vivere. Questo è il modello di pratica clinica al quale aspiro, una pratica che sia capace di liberare «una base che vuole vivere, al di là della distinzione tra malattia e salute»
Il testo si divide in tre parti:
Il primo capitolo introduce lo scenario autistico di livello 1, un tempo noto come Sindrome di Asperger, caratterizzato da una capacità linguistica preservata ed un funzionamento generale che permette una sufficiente indipendenza dell’individuo, pur presentando una serie di caratteristiche che possono mettere in difficoltà la persona autistica ed il nucleo sociale di appartenenza. Appare subito chiara l’impronta fenomenologico-esistenziale e la traccia basagliana che anima l’intero scritto, e che raccorda le varie parti in un unico fluire.
Nell’ambito dei disturbi del neurosviluppo la metodologia e lo specialismo non hanno fatto altro che aumentare la distanza tra chi cura e chi è curato – come avviene tra le «cose» che non hanno nulla in comune tra loro – eludendo in questo modo l’importanza della comunanza di vita e di intenzioni che permette alle persone di guardare nella stessa direzione, e che può favorire l’operatore rispetto alla possibilità di incontro con la persona autistica, al di là di qualsiasi protocollo.
Il secondo capitolo si immerge completamente nella filosofia fenomenologico-esistenziale, illustrando il senso che la pratica filosofica trova negli scenari clinici. Nel sottrarsi dall’applicazione pedissequa dei protocolli validati, le cui tecniche desiderano fornire risposte, l’autrice ricorda che la filosofia è una domanda, è una messa in discussione dei preconcetti e delle teorie che anticipano il fenomeno piuttosto che lasciarlo accadere. Tramite l’esercizio dell’epochè, promuovendo una cura intesa come Sorge e non come Kur, con l’invito ad abitare il mondo autistico, l’autrice adopera gli strumenti filosofici al fine di colmare il divario tra la clinica e la vita, e di approdare a quello che è lo scopo ultimo di ogni terapia: la restituzione di un poter essere, un possibile che sottragga dall’immanenza dei limiti del Körper e rilanci la trascendenza del progetto umano.
La filosofia nella clinica, in tal senso, può essere considerata come un disimpegno verso la verità assoluta e come un esercizio a sostare nella difficoltà senza ritrarsi, vedendo quest’ultima come una possibilità e un destino per chi si appresta al difficile compito di comprendere se stesso, la propria condizione esistenziale e quella del proprio familiare.
In questo contesto il lettore fenomenologicamente edotto probabilmente non ravviserà sostanziali differenze tra il counseling filosofico proposto dall’autrice e la psicoterapia a orientamento fenomenologico. La sfida di una struttura terapeutica che sospende teorie e modelli tramite l’impiego dell’epochè è di scoprire nell’unicità dell’incontro quali siano i peculiari modi dell’aver cura degli esser-ci coinvolti nella con-presenza della terapia. È richiesto il coraggio di una ridefinizione del setting, una continua negoziazione degli obiettivi ed una sempre rinnovata costruzione di senso. “Immer wieder, sempre di nuovo”, motto della fenomenologia, mai come in questo testo è issato a bandiera nel presentarsi all’incontro col mondo neurodivergente.
Il terzo e ultimo capitolo traccia le linee guida per un’intervento fenomenologicamente fondato, attingendo all’esperienza clinica del Parent Training Sophia, dispositivo implementato dall’autrice nell’ambito dell’autismo di livello 1 e della neurodiversità, rivolto all’adulto, alla coppia e alla famiglia. In piena sintonia con la tradizione del Dialogo Aperto di Seikkula e degli interventi psichiatrici improntati al Recovery, diventa primaria la fondazione di una logica del senso, che apre ad una cultura della cura:
Nell’affrontare l’autismo è necessario ricordare che possiamo trovarci di fronte a un paradosso, e che dobbiamo confrontarci con una differenza sostanziale nell’intenzione comunicativa partendo dal presupposto che c’è sempre una logica dietro ai non-sensi, e che è necessario impegnarsi ad intenderla sapendo che potremmo continuare a trovare quelle espressioni assurde, e che potrebbe essere necessario seguitare a viverle per riuscire a comprenderle. Nella clinica tralasciare questo fattore saliente può determinare un disguido inevitabile, e l’incomprensione nella comunicazione può tramutarsi in un problema di natura psicologica o psichiatrica, quando invece si tratta piuttosto di una difficoltà semantica e concettuale.
Si rende necessario considerare la possibilità di molteplici logiche di senso, se si desidera accedere all’incontro con l’esistenza autistica. Il malessere è generato dal disguido, dal fraintendimento, dall’impossibilità di decentramento di mondo da parte dell’individuo “normale”, per cui il mondo autistico non è accolto, è rimbalzato. È nell’estraneità alla convenzione propria dell’esistenza autistica che si gioca la partita, in quanto la neurodivergenza sembrerebbe prefigurare una modalità difettiva del con-esserci. Solo l’accordo tra mondi può trasformare l’alienità in alterità, fondando una possibilità di incontro e cura autentica.
Riuscire ad individuare la differenza esistenziale ed accordarsi ad essa è una delle sfide più importanti nell’autismo, e nella mia pratica costituisce l’impegno maggiore con le famiglie.
Immergersi nella lettura di questo testo, da psicoterapeuta fenomenologicamente orientato, è stata un’esperienza profondamente arricchente e stimolante. Finalmente un libro sull’autismo in cui non si parla di eziologia né si propone una teoria, ma ci si concentra sul puro fenomeno: cosa appare quando ci si pone innanzi al mondo autistico. Smarcandosi da teorie della mente e neuroni specchio, da fortezze vuote e debolezze piene, Di Adamo propone un libro che fa cultura, che insegna la filosofia agli psicologi e la psicologia ai filosofi, anzi, educa, come chiarisce Venturini all’interno della preziosa introduzione. È proprio l’educazione che promuove quella Kulturarbeit necessaria affinché l’umano si raccordi con la sua stessa vulnerabilità, traendo fuori dai luoghi di contenzione esistenziale il cavallo azzurro dell’alterità.
I motivi per leggere questo testo sono dunque numerosissimi:
Innanzitutto il suo porsi come alternativa epistemologicamente solida e fondata ai protocolli correnti, restituendo salienza del vissuto soggettivo.
Una profonda e dettagliatissima bibliografia per la quale l’autrice impiega una meticolosità da review sistematica, offrendo numerosissime fonti da cui attingere per un approfondimento innanzitutto esistenziale del mondo autistico. Sono presenti continui riferimenti alle molteplici forme della terapia, della clinica, della filosofia: non solo la tradizione fenomenologica a partire da Jaspers, Binswanger e Minkowski, ma anche Rogers, Frankl, Laing, così come gli esponenti della psichiatria democratica italiana; dallo stoicismo e scetticismo ellenico a Wittgenstein, passando per i capisaldi della fenomenologia ed esistenzialismo quali Husserl, Heidegger e Sartre. Se i fitti riferimenti nelle note introducono talvolta il rischio di appesantire o spezzettare la lettura, la maestria dell’autrice è nel riuscire a raccordare le varie fonti in maniera sempre chiara e fluida: l’accostamento di numerosi autori non risulta mai forzato o nozionistico, ma sempre puntuale ed estremamente sensato, allo scopo di fornire continui appigli e rimandi in un movimento corale di promozione di una cultura della cura e dell’umano.
Infine una commovente anima filosofica e filantropica dell’autrice, nel farsi portatrice del messaggio basagliano di apertura e accoglienza della diversità, in un’attualità troppo spesso divisiva.
Ancora oggi la grande fiducia riposta nel dato scientifico e nello specialismo sacrifica la parte più fragile della nostra umanità.
Come espresso nella quarta di copertina, la lettura è senz’altro consigliata a chi si occupa di cura e di educazione, così come alle persone neurodivergenti e alle loro famiglie, ma più di tutti alle «persone che a diverso titolo di adoperano affinché la società sappia far fronte ai bisogni umani e riconosca la vulnerabilità neurobiologica come un valore». Fortemente suggerito dunque agli operatori di settore, agli studenti, a chi desidera saperne di più di autismo scostandosi da un’ottica eziologico-nosografica. Un testo estremamente godibile sia per chi vuole imparare di filosofia e fenomenologia, sia per chi ne sa già e ne ritrova un accuratissimo compendio.
Inizialmente l’autrice si riferisce alla filosofia in senso sineddochico, facendo invece riferimento al metodo fenomenologico, forse per non mettere in difficoltà il lettore meno edotto, ma più avanti giunge a dare una definizione di pratica clinica orientata fenomenologicamente estremamente chiara e precisa. Il lessico fenomenologico è uno dei punti forti di questo testo: l’autrice dimostra una profondissima conoscenza della materia ed una piena padronanza che le permette di risultare sempre puntuale, mai arzigogolata, al punto da rendere questo testo un ottimo spunto didattico.
Chi cerca in questo libro una tecnica, un “how to“, probabilmente rimarrà deluso, ma in questa delusione si preserva il senso del libro. Se tale lettore sarà in grado di elaborare la delusione e di immergersi in profondità all’interno del messaggio del testo, mettendo in discussione i paradigmi correnti, rinunciando a qualche risposta a favore di una domanda in più, allora il seme avrà attecchito e il libro avrà raggiunto il suo scopo.
In definitiva, sono felice di raccontare un’esperienza di lettura piacevolissima ed edificante, sia in qualità di professionista che di individuo. Pagina dopo pagina si susseguivano gli spunti, dal delineare una fenomenologia del mondo autistico a partire dalla “Teoria del mondo intenso” di Markram & Markram, a possibili ponti con il lavoro di Sergio Piro sul linguaggio schizofrenico, sulle tecniche della liberazione, nel suo portare la filosofia di Wittgenstein all’interno dei manicomi, riproponendo a Materdomini ciò che Basaglia parallelamente conduceva a Gorizia. Nel tracciare i sentieri per una scienza degli influenzamenti destinali, la terapia intesa come aver cura dell’altro sofferente, che sia psicotico, neurodivergente, o semplicemente in difficoltà, si produce come un viaggio di due o più Daseinspartner verso la libertà.
Riportare gli individui al loro poter essere più proprio è l’intento del mio lavoro.
Concludo la presente recensione col desiderio di restituire il forte senso di stima e gratitudine nei confronti dell’autrice, per l’ardua missione che quotidianamente porta avanti, per aver scelto di condividere la sua passione e la sua saggezza pratica, e per il contribuire con il suo lavoro a rendere i mondi di ciascuno più vicini, più accoglienti, più aperti, in definitiva migliori.
L’impegno richiesto alla clinica e alla cultura è di andare oltre le teorie scientifiche e protendere per un’ermeneutica del sintomo, volgendo l’attenzione non tanto ad una spiegazione dei fatti psicologici, ma alla loro espressione – per come accadono nella specifica persona e nelle relazioni con gli altri e nei contesti – in modo da giungere ad una scoperta di senso dell’esperienza vissuta. […].
A tutti coloro che in qualche modo si trovano sul mio medesimo cammino, a volte scomodi e incerti nell’incedere, auguro di avere forza per avanzare inarrestabili nella ricerca e nel perseguimento del bene.