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Incontro e riconoscimento in clinica

Partire dall’inizio

Vi confesso che non è stato per nulla semplice riuscire a dare una struttura a questo mio intervento perché, come vedete dal titolo, il mio riferimento è particolarmente ampio.

Allora, ho deciso di partire, banalmente, dall’inizio, sotto tutti i punti di vista – anche se, come vedremo, non è così banale. Partire dalla visione comune che, in un certo senso, ci avvicina e da lì procedere nel discorso: cioè dare a questi sentieri delle indicazioni, una sorta di segnaletica che ci dice “dove stiamo andando”. Quindi, vorrei introdurre questo spazio di dialogo aperto rendendo esplicito il filo rosso che ci lega, ovvero un’idea di fondo della clinica. Questo filo rosso è anche una sorta di filo di Arianna che ci permette di tenere traccia da dove veniamo, perché la clinica ha una sua storia ed è ovviamente legate al contesto socio-culturale del tempo.

L’immagine che abbiamo scelto per questa mattinata è questa: degli scalatori su una montagna. Questa immagine ha un duplice significato, secondo me.. Da un lato, appunto, questa visione comune, dall’altro penso che ben rappresentino la relazione clinica. Se ne potevano scegliere altre: un bosco, una “selva oscura”, diciamo così, ecc.

A volte ci dicono che bisogna accompagnare i pazienti nel loro percorso. Solitamente l’idea che si ha di percorso è quella di una strada, con ostacoli, certo, accidentata, ma comunque una strada come quelle che vediamo qua fuori. Già riuscire ad accompagnare in queste strade è tanto. A volte la strada non c’è neanche: c’è solo un tecnico che riceve un paziente, lo ascolta – se gli va bene – e applica dei protocolli in maniera molto puntuale e scrupolosa. L’Altro è “oggetto” del mio intervento, uno come altri a cui posso applicare il mio modello. L’immagine del percorso così delineata, però, non rispecchia la nostra idea di clinica (sia per chi è già navigato sia per chi si affaccia ora al mondo della clinica), che rispecchia di più a quella di un sentiero di montagna. In salita, scalando: sporcandosi e ferendosi le mani; a volte non vedendo bene oltre, perché c’è nebbia, quindi avendo l’ignoto come riferimento, senza vedere la vetta; a volte sopportando freddo e le tormente di neve; la mancanza di ossigeno, e via dicendo. Eppure di fronte a questo c’è un’unica cosa certa: la scalata insieme.

Sì, ma che vuol dire “stare insieme?” e qui vengo al mio talk. L’Altro che accetto di accompagnare nella scalata chi è? E’ un “chi”? Come tratto io questo “chi”? Sappiamo che la relazione è cornice e primum movens su cui si costruisce ogni terapia. Però, è necessario capire cosa intendiamo per relazione e incontro.

C’è una domanda che mi sorge da tempo e che vorrei qui porre per cominciare il tutto: ha senso oggi, nel 2023 qui con voi, che sicuramente vi portate dietro un bagaglio esperienziale, e dopo le grandi conquiste relazionali in psicoterapia e le pagine dei maestri della fenomenologia clinica, parlare di incontro? Vorrei che questa domanda rimanesse sullo sfondo in questi 20 minuti, su cui tornerò alla fine.

La domanda antropologica come propedeutica

Quindi, prima di tutto ci dobbiamo porre una questione essenziale: quella antropologica, chi è l’essere umano? Come dicono Stanghellini, Borgna e altri, la risposta a questa domanda determina il nostro modo di procedere. Dalla questione antropologica scaturisce quella clinica. E’ una domanda che anche autori come Freud per la psicoanalisi e Beck per il cognitivismo clinico si sono, più o meno esplicitamente, posti.

Martin Buber (1958) parla di una differenza della relazione con un Tu o un Esso, dove, quest’ultimo, è reificato, è ridotto a cosa, ad oggetto tra gli altri. Questo è, fondamentalmente, ciò che emerge dagli approcci riduzionisti e biologisti per cui si ha una visione meccanicistica, il famoso homo natura, inquadrato secondo le leggi delle scienze naturali. Qui la clinica, si riduce, come dice Callieri (1998), in un operare “teoricamente adialogico”: l’Altro è oggetto del mio intervento. Queste visioni riduzioniste e neurocostruttiviste ricevono diverse critiche anche all’interno del proprio orizzonte. Pensiamo a Varela, già a partire dagli anni ’90. Più recentemente Thomas Fuchs, il quale, nel proporre una visione unitaria, ecologica ed enattiva dell’essere umano, recentemente ha pubblicato un testo il cui titolo è già un manifesto: “In defence of human being”, cioè, paradossalmente, ci troviamo di fronte alla necessità di “difendere” l’essere umano dai metodi e dagli studiosi che dovrebbero studiarlo.

Se l’Altro, però, è un Tu, le cose cambiano, perché riconosciamo nell’Altro una persona, cioè non solo natura, ma anche cultura e storia, abolendo ogni “ahistorical fallacy” (Andreansen, 1994).

Ecco, “riconosciamo”. Per avere un Tu è necessario il riconoscimento.

La cornice del riconoscimento: l’insuperabile dissimmetria e libertà

La concezione di riconoscimento che qui voglio delineare è ampia e affonda le sue radici in circa 400 anni di storia della filosofia, a partire dai moralisti francesi del Seicento, fino a giungere a Axel Honneth e Paul Ricoeur, passando per la tradizione tedesca dell’Anerkennung di Fichte e Hegel.

Non mi è possibile scendere nei particolari, ma accennerò soltanto a Honneth e Ricoeur.

A partire dalla tradizione tedesca, il riconoscimento acquista un certo primato, una priorità genetica e concettuale rispetto alla conoscenza, in quanto il riconoscimento, nello specifico il riconoscimento reciproco, costituisce l’aspetto fondante della costituzione dell’identità umana (Honneth, 2019b) .

In particolare, Honneth (2002, 2019ab) sottolinea come la riproduzione della vita sociale avvenga sotto l’imperativo di un reciproco riconoscimento, poiché i soggetti possono giungere a una relazione pratica con sé solo se imparano a concepirsi dalla prospettiva dell’Altro, ovvero in una prospettiva in seconda persona. Gadamer (1960) in “Verità e metodo” diceva che noi abbiamo la possibilità di capire il nostro pregiudizio e le nostre prospettive solo nell’incontro con un altro orizzonte, con delle alternative.

Honneth (1993, 2002, 2019ab) individua, sulla scia di Hegel, 3 stadi del riconoscimento reciproco, cui corrispondono dei correlativi negativi, ovvero forme di misconoscimento, che non sono semplici “torti” ma ledono la comprensione e la costituzione dell’individualità stessa:

1. Amore, quello che a noi interessa, ovvero tutte le relazioni che “conformemente al modello delle relazioni erotiche di coppia, delle amicizie e delle relazioni genitore-bambino consistono in forti vincoli affettivi tra poche persone” (Honneth, 2002, p.117). Questo rapporto è legato necessariamente all’esistenza di altri concreti. All’interno di questo stadio facciamo rientrare anche la relazione clinica. Il correlativo negativa è la violenza fisica, ovvero l’impossibilità di disporre liberamente del proprio corpo.

2. Diritto (Negativo: negazione dei diritti)

3. Solidarietà (Negativo: umiliazione)

La concezione di Honneth di lotta per il riconoscimento nella storia vede nel riconoscimento qualcosa di più del “attesto che tu hai un valore, sei bravo” e quindi qualcosa legato alla performance, ma qui ci muoviamo in un terreno ancora più radicale. Lo stesso Honneth (2019a) legherà il tutto alla “cura esistenziale”.

Ricoeur (2005) farà un percorso sul termine “riconoscimento” che parte da un’analisi semantica, individuando delle classi-madre di significato

  • discriminare (identificando il riconoscimento con la conoscenza)
  • reputare vero
  • testimoniare gratitudine nei confronti di qualcuno

A partire da questo, sviluppa una riflessione in 3 tematiche ordinando l’uso del termine dall’attivo al passivo. Questo modo di procedere permette, da un alto, di sganciare il riconoscimento dalla conoscenza. Inoltre, alla forma passiva, il chiedere riconoscimento può trovare soddisfazione solo nei termini di mutuo riconoscimento, che sarà sviluppato nella terza tematica. Senza scendere nei particolari, Ricoeur sottolinea l’uso che farà di “mutualità”, facendo riferimento al termine greco “allelon”, traducibile come “l’un l’altro”. Proprio questa dicitura ha lo scopo di evidenziare l’insuperabile dissimmetria, la costitutiva differenza tra i due termini “l’un” e “l’altro”, nel senso che l’uno non è l’altro: mi costituisco tramite l’Altro, ma non sono l’Altro e viceversa.

Ora, Ricoeur riconosce a Honneth il merito di aver sistematizzato un percorso che attribuisca al mutuo riconoscimento un ruolo fondante l’individuo, eppure Ricoeur fa un passo in più, si pone in posizioni più radicali, per cui il misconoscimento nel primo stadio non fa riferimento all’integrità fisica, all’incapacità di disporre liberamente del proprio corpo, quanto all’incapacità di costituirsi liberamente, ovvero all’impossibilità di es-istere, di venire fuori, di costituirsi persona tramite l’altro. Ricoeur qui non parla di lotta, ma di dono in un più ampio contesto di agape: viene a mancare il dono dell’esistenza. Senza l’Altro rischiamo di scadere nell’indifferenziato, nell’anonimato. Lo sguardo dell’Altro può permettermi di esistere, ma anche di pietrificarmi come la Gorgone (Garofalo, 2006).

Il dono presupposto è quello per cui vi è garanzia di costituirsi come individuo: la libertà di esistere.

Questo è anche ciò che emerge in definitiva dagli studi sullo sviluppo, dall’attaccamento all’Infant Research, passando per diversi autori della tradizione psicoanalitica. Ad esempio, cos’è la compiacenza di Winnicott (1965) se non un restringimento, un incanalare lo sviluppo del bambino in binari rigidi perché non è stato riconosciuto nei suoi bisogni, nella sua spinta ad esistere?

Oggi nello sviluppo, e nella clinica dove ora arrivo, grande importanza viene attribuita ai concetti di mutualità e reciprocità, dove mutualità non implica simmetria: caregiver e bambino si influenzano reciprocamente (potremmo elencare fiumi di letteratura: sintonizzazione, contingenza, rispecchiamento, responsività ecc), ma non ugualmente e negli stessi termini. Quando Stern (1985) parla della danza madre-bambino, di questo reciproco adattarsi, è chiaro che alla madre spetti una responsabilità maggiore. Avete presente quei bambini piccoli che alle feste ballano con il genitore e mettono i propri piedi su quelli del genitore? Possiamo un po’ usare questa immagine.

Similmente (ma non in maniera isomorfica) avviene in clinica. Qui emerge anche la dimensione etica del clinico nell’incontro, su cui mi soffermerò tra poco.

Kohut (1977) in Narcisismo e analisi del Sé sottolinea che noi trattiamo il neonato come se avesse un Sé, cioè lo concepiamo già separato.

Altro esempio: Jessica Benjamin ha fatto tesoro degli studi sullo sviluppo degli ultimi 40 anni e, inserendosi nel filone della psicoanalisi relazionale contemporanea di matrice nordamericana (che, non a caso, si sviluppa grazie anche all’influenza della fenomenologia), parla di una clinica fondata sul riconoscimento, vista come “forma primaria di legame tra due persone” (Benjamin, 2019, p. 9). A partire da questo elabora una nuova concezione di “terzietà”, di “Terzo”, sia in riferimento allo sviluppo che alla clinica.

E’ la posizione in cui riconosciamo implicitamente l’altro come un ‘soggetto simile’, un essere che possiamo sperimentare come “altra mente”. Il Terzo si riferisce ad una posizione costituita dal mantenere la tensione del riconoscimento tra differenza e uguaglianza, intendendo l’altro come un soggetto separato ma equivalente che agisce e conosce, con il quale possibile condividere sentimenti e intenzioni (Benjamin, 2019, p. 9)

Stanghellini (2017) a questo proposito parla di dissimmetria empirica e simmetria trascendentale.

La rottura del Terzo, sia nello sviluppo che nella clinica, crolla nella dualità, in cui l’altro è oggetto, si entra nella logica “chi agisce-chi è agito”, in una lotta di potere. Questa dinamica del potere è ampia e spinosa in clinica e riguarda anche il ruolo della terapia nel contesto sociale.

Blankenburg parlava di una clinica che permetta al paziente di autodeterminarsi quanto più possibile (Stanghellini & Dibitonto, 2020).

Quindi, Benjamin parla della necessità di una tensione: relazione soggetto-soggetto e soggetto-oggetto.

Già prima della psicoanalisi, la fenomenologia clinica ha parlato di questa tensione. Danilo Cargnello (1999), ancora prima, dice che tutta l’ambiguità della cura consiste nell’oscillazione tra l’essere-con-qualcuno e l’avere-qualcosa-di-fronte.

Una clinica del Tra

Allora, se il riconoscimento è un bisogno connaturato nell’essere umano, ogni clinica non può che declinarsi nell’incontro, tra due spazio-temporalità che si incontrano. La clinica avviene in quel “tra”, in questo spazio interstiziale. Ma senza riconoscimento del fatto che l’Altro è simile, ma allo stesso tempo diverso da me, non ci può essere nessun incontro. Parlare di incontro presuppone una consapevolezza preliminare, che non è una semplice constatazione cognitiva, ma appartiene ad una disposizione più profonda (Stanghellini, 2017)

Capiamo, però, come la domanda su chi sia l’Altro è destinata, comunque, a non essere pienamente soddisfatta (Stanghellini, 2017). La tragicità e l’angoscia stanno proprio nella consapevolezza che l’Altro è comunque altro. C’è ulteriorità. Non è possibile parlare di relazione clinica, di incontro in una logica dove neghiamo e ingabbiamo il perturbante che è insito nella sua alterità. L’Altro, affinché ci sia incontro e clinica, deve in un certo qual modo rimanere assoluto, ovvero sciolto (ab-solutus). Se la mia tecnica, il mio modello hanno la pretesa di cogliere totalmente l’Altro, gli stiamo impedendo di esistere. Allora, ad esempio, il lavoro di equipe e il dialogo interprofessionale, assolutamente necessario e importante, non può essere visto come l’ennesimo modo per esaurire l’altro tramite i diversi punti di vista. E’ misconoscimento. Se partiamo con quest’ottica, abbiamo già negato la possibilità di esistenza dell’altro Uno dei primi ammonimenti che si danno è “primum non nuocere“.

Lo spazio-tra è garanzia di esistenza. Già il solo fatto di avere un corpo vivente con dei confini presuppone che non ci possa essere identità tra me e l’Altro. Se Stanghellini (2017) ci dice che il Tu è, comunque, un compito, un predisporsi ad accettare l’Altro come altro (vedremo ora che vuol dire predisporsi), Bracco (1998) sottolinea appunto che il corpo vivente è

inesauribile eccedenza, un’eccedenza che ciascuno custodisce come il suo più intimo segreto (…) Per quanto possa sembrare contraddittorio, di fatto la comunicazione e la relazione interpersonale sono possibili nella misura in cui l’opacità della vita del corpo rende impossibile il confluire dei vissuti di un individuo in quelli di un altro, ciò che determina una distanza irriducibile, quella distanza necessaria perché un mondo e degli altri esseri come me possano esistere in quanto tali (pp.141-142).

E’ la resa il primo passo, dove resa non è il fallimento, ma profondo rispetto dell’alterità.

Questo esprime una profonda consapevolezza etica ed epistemologica. Riconoscere l’Altro, in questi termini, è il primo atto terapeutico ed è un atto, se ci fate caso, prima di tutto umano e poi clinico. E’ a partire da questo che si snoda il percorso, il processo terapeutico.

Questo riconoscimento, però, si radica in una particolare intimità, trova le sue radici nella Noità, nel nostro essere prima di tutto Mitdasein (Heidegger, 1976), nel nostro emergere da quell’Aidà (Kimura, 1988), dal fondo relazionale della nostra esistenza.

Una clinica che si snoda incontro per incontro, in quel tra che diventa garanzia di cambiamento e, allo stesso tempo, è garanzia di esistenza. Spazio che non è in uno o nell’altro, ma, come dice Callieri (1998), è tra i due, non accessibile ad altri. La portata di novità di ogni incontro, quindi, non può essere racchiusa in definizioni esaustive.

Senza riconoscimento non si potrebbe essere nessun incontro, nessuna clinica, nel senso etimologico, perché non ci sarebbe l’altro verso cui piegarsi, verso cui andare, perché l’Altro viene assorbito, inglobato. Qui clinica non è sofferenza, ma è qualcosa di ancora più radicale: è esistenza, venir fuori, un permettere e lasciar essere. E la fenomenologia con l’epoché diventa etica del riconoscimento. Cito nuovamente Callieri (1998) quando dice che la fenomenologia è propedeutica ad ogni forma di psicoterapia.

Qui non si vuole negare l’importanza di tecniche, test, modelli, nosografie ecc, ma si pone un discorso fondativo e precedente a tutto questo: saper fare presuppone un saper-essere e, a questo punto, un lasciar-essere. Non è, quindi, una crociata contro le tecniche. Anzi. Solitamente diciamo che non c’è peggior clinico che metta barriere, eriga muri di ipertecnicismi per difendersi. Verissimo, ma c’è anche il rischio opposto. Vediamo se riesco a rendere con un’immagine… Avete presente le parole di De Curtis della canzone “Torna a Surriento”? “Vide ‘o mare quant’è bello! Spira tantu sentimento”… Ecco, immaginate questo tipo di clinico, cioè il clinico etereo, senza una solida formazione tecnica. Credo sia parimenti pericoloso il primo, ovvero il clinico corazzato. Ho citato Cargnello poco fa: “oscillare tra essere-con-qualcuno e avere-qualcosa-di-fronte”.

Questo porta ad una importante conseguenza: accettare l’ignoto. Gilberto Di Petta (2022) in uno dei suoi scritti su questo argomento, in una lettera molto densa, ad un certo punto dice

Forse aprirvi all’impotenza di fronte all’enigma dell’incontro è il lavoro migliore che potete fare (p. 6).

Questo può essere angosciante, però penso sia anche liberatorio per il clinico, perché sotto certi aspetti lo sgancia dal mito di “perfezione”, del “non si può sbagliare” per aprirsi ad una onestà che si radica nella conoscenza psicopatologica. Sappiamo bene che il clinico non può essere perfetto: intanto umanamente e poi perché perfetto, dal latino significa “compiuto”, “completo”, mentre ogni incontro è assolutamente nuovo e ha bisogno di continua predisposizione, il nuovo è ignoto. Passare da una clinica pseudo-perfetta a una clinica “sufficientemente buona” – che è onesta, per riprendere Dalle Luche (1998). Chiudersi all’ignoto, all’angoscia della comunicazione, come dice Jaspers (2013) nel secondo libro della “Filosofia”, ci porta ad affondare con noi stessi e con l’Altro nell’inautenticità. E sappiamo che tutte le relazioni inautentiche sono uguali. Sempre Dalle Luche (1998) scrive che l’incontro dà l’accesso a un percorso che si qualifica come esorcismo di ogni prassi automatizzata e protocollare.

Tornare all’inizio

Ritorno alla domanda iniziale: ha senso parlare oggi di incontro? Rispondo con le parole di Lorenzo Calvi (1998) il quale cita direttamente (da cui traggo questa prima citazione) Barison (1990) per cui l’incontro “è un evento che accomuna un esame clinico vero e proprio e un primo atto psicoterapeutico” (p.31) e poi continua:

Tutta la giustificazione di ricominciare da capo ogni volta oltre che fondarsi sul procedere di ogni esercizio fenomenologico, punterebbe allora su quel “primo”. Ogni nuovo malato impone di ricominciare tutto da capo e quindi ogni riflessione sull’incontro in generale vuol dire non perdere ma guadagnare tempo, perché ci avvicina alla condizione di rendere possibile che ogni nuovo colloquio clinico sia un incontro e quindi un atto psicoterapeutico (Calvi, 1998, p. 1).

Avete presente il proverbio “aiutati ché Dio t’aiuta”? Bene, è proprio questo che si intende con “rendere possibile che”. L’incontro, nel suo avvenire e dipanarsi, si colloca, come dice Masullo (2013), nel kairòs, nel tempo di grazia, ma bisogna predisporsi a questa grazia che è trasformativa. Gozzetti (1998) in un articolo su Comprendre parla della spontaneità dell’incontro come una meta possibile, di un incontro che oscilla tra il modus amoris binswangeriano e “l’essere preso con responsabilità” (p. 1), cioè un farsi gradualmente più vicino. L’incontro si muove tra amore e aggressività.

Per concludere, ritornando alla nostra immagine, capiamo allora come quello di una clinica fondata su incontro e riconoscimento sia un percorso irto non solo per la questione di vita specifica con cui ci confrontiamo, ma anche perché presuppone una preparazione e un predisposizione faticosissima.

Carmelo Pacino

Dottore magistrale in Psicologia Clinico-Dinamica all’Università degli Studi di Padova. Allievo della Scuola di Psicoterapia Fenomenologico-Dinamica di Firenze. Si interessa di fenomenologia dell’incontro e del dialogo tra fenomenologia e psicologia dinamica; Socio dell’Associazione Italiana di Psicologia Fenomenologica.

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