Resoconto dell’intervento del prof. Gilberto Di Petta durante il seminario “”La prospettiva fenomenologica nei servizi di salute mentale del 27 febbraio 2021, organizzato Centro di Ricerche Fenomenologiche di Roma e dalla Società Italiana di Psicopatologia Fenomenologica.
Mi corre l’obbligo ricordare che questo mese di nove anni fa se ne è andato Bruno Callieri, e gli dedico queste mie e nostre riflessioni che senza di lui avrebbero avuto una struttura molto diversa, e vengo a trattare il tema che mi è stato assegnato che è la prospettiva fenomenologia nei servizi di salute mentale, ma vorrei dire “sui” servizi di salute mentale.
Ovvero vorrei fare oggetto di una analisi fenomenologia l’attualità dei servizi di salute mentale partendo da una evidenza: la nostra rete dei servizi di salute mentale non vessa di buona salute, ovvero allo stato attuale non soddisfa né gli operatori e quindi parlo di psichiatri, psicologi infermieri, assistenti sociali che ci lavorano dentro, e non soddisfa né i pazienti, gli utenti o i clienti e le famiglie dei nostri pazienti. E la domanda dalla quale io parto è questa: come è possibile che questa rete di servizi, sorta dopo la lotta per la chiusura degli ospedali psichiatrici, e quindi per la liberazione e il reinserimento nel mondo dei soggetti affetti da disagio psichico, come mai è arrivata io direi al punto più basso (poi si potrebbe non esserci limite al peggio) ecco, come è arrivata a tale grado di insoddisfazione? Ecco questa è la domanda che io mi pongo. E voglio essere ancora più radicale come secondo me da una prospettiva fenomenologica bisogna essere, ovvero (…) ovvero, se l’organizzazione della struttura dei servizi di salute mentale è questa, dando per scontata la migliore organizzazione possibile, diciamo alla Leibniz il migliore dei mondi possibili, nel quale noi possiamo immaginare i nostri servizi di salute mentale, il livello di insoddisfazione degli operatori e dei pazienti rischia di mantenersi alto. Perché? Perché purtroppo alla base di questo livello di insoddisfazione c’è un incontro mancato.
Quale è l’incontro mancato? È proprio quello tra il clinico e il paziente, ovvero tra il soggetto curante e il soggetto da curare, tra il soggetto che chiede aiuto o al quale l’aiuto viene portato, e i soggetti che danno questo aiuto. C’è un incontro mancato. Ora io cercherò di argomentare perché c’è questo incontro mancato, come è possibile che si sia mancato l’incontro. Per fare questo io procederò in questo modo, dividerò questa storia in due tronconi, uno che va dal 1904 al 1978 brevemente cioè dalla legge Giolitti che istituisce in Italia gli ospedali psichiatrici manicomi al ’78 quando i manicomi vengono messi fuori legge e questo diciamo è il periodo nero dal quale noi siamo usciti; e poi l’altro periodo diciamo dal 1980 quindi dalla morte di Franco Basaglia al 2021 stiamo parlando di quasi mezzo secolo, insomma una quarantina di anni, nei quali nonostante la chiusura dei manicomi l’incontro continua a essere mancato perché il manicomio ha raggiunto delle forme diciamo inaccettabili da un punto di vista umano e lì dentro il paziente era immerso in uno stige, con un linguaggio dantesco, cioè in un’aria senza tempo tinta in una anonimato totale senza storia senza progetto senza speranze. Però una volta usciti fuori dai manicomi in questi 40 anni bisogna dire che noi abbiamo continuato a mancare il paziente nonostante siamo stati fuori dal manicomio, nonostante si sarebbe verificato secondo Franco Basaglia quel passaggio dal dentro a fuori ovvero quella restituzione di soggetto al mondo. Per cui vorrei puntare la mia riflessione su come è stata fatta questa restituzione del soggetto al mondo e su che cosa è mancato nella formazione e nella preparazione degli operatori e di chi quotidianamente va incontro ai nostri pazienti per far sì che i nostri pazienti possano rincontrare alcuni aspetti del mondo.
Dal 1904 al 1978 in mezzo c’è la Seconda Guerra Mondiale. Quello che era la psichiatria italiana prima della Seconda Guerra Mondiale è facile dirsi: non esisteva. La società italiana di psichiatria si è chiamata di freniatria fino agli anni trenta perché il termine psyché disturbava diciamo anche le concezioni di un certo idealismo dell’epoca ed era ritenuto un qualche cosa di materiale. Purtroppo se la Francia ha avuto un Pinel l’Italia ha avuto un Chiarugi che era un grandissimo clinico ma che si muoveva su un solco di medicina greco-romana quindi di medicina somatica, somatistica, fisicalistica, mentre Pinel scrive alla fine del Settecento un trattato medico-filosofico dell’alienazione mentale e quindi comincia a comprendere e riprendere la follia nell’ottica di una dialettica tra passione e ragione e cerca di sottrarre i pazienti ad un processo di esclusione sociale di reificazione che era già cominciato, simbolicamente spezza le catene per metterli in asili specifici che poi purtroppo diventeranno manicomi, Chiarugi invece si mantiene sulla teoria diciamo ippocratica e galenica degli umori e quindi nell’ottica di un riduzionismo positivista.
Quindi l’Italia dopo la seconda guerra mondiale ha questi ospedali psichiatrici che sono, diciamo, in condizioni terribili. Del resto la popolazione fuori non è che vivesse meglio soprattutto nelle zone periferiche, e la psichiatria è completamente collassata con la neurologia: cioè le malattie mentali sono malattie del cervello, punto. Non è arrivato quasi nulla di Freud, di Jung e di Jaspers. Un primo abbozzo di società psicoanalitica formata da Edoardo Weiss viene disciolta perché scienza ebraica, Jaspers dal 1913 sarà tradotto soltanto nel 1964, e quindi diciamo il clima è un clima tenebrale. In questo clima tenebrale tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta Franco Basaglia fa saltare il banco. Franco Basaglia era nutrito di cultura fenomenologica, era arrivato a Merleau-Ponty e a Husserl attraverso Jean Paul Sartre, aveva scritto lavori sulla “Evolution psychiatric” rivista diretta da Minkowski insieme a Bruno callieri sul Dasein degli schizofrenici, sull’esserci degli schizofrenici, era stato escluso dalla carriera universitaria, mandato a Gorizia e lì all’inizio degli anni ’60 incontra queste situazioni drammatiche e dedicherà tutto il ventennio ’60-’80 alla svolta antistituzionale e alla restituzione di dignità agli ammalati compiendo un’operazione fenomenologica che è quella della messa tra parentesi. Lui mette tra parentesi la malattia mentale e cerca di considerare nuovamente la persona come soggetto di diritto. Cosa ha aiutato Franco Basaglia? È aiutato, direbbero i tedeschi, dallo Zeitgeist dell’epoca, ovvero da tutta una serie di movimenti di modernizzazione della società italiana e anche europea, ma italiana in particolare, e dal fatto che dopo la guerra cominciano a prendere quota in maniera clandestina queste due grandi correnti che sono la fenomenologia applicata alla psichiatria, e alla psicopatologia, ma anche la fenomenologia filosofica arriva in Italia, e psicoanalisi, sia di marca freudiana che di marca junghiana, ovvero tutte le raccolte editoriali di Pier Francesco Galli, il pensiero di Gaetano Benedetti. Cominciano a organizzarsi anche i grandi modelli di psicoterapia e la società va incontro a dei rinnovamenti radicali. Insomma, c’è tutto un movimento sociale sul quale Basaglia conta, perché Basaglia oltre ad avere questa ispirazione fenomenologica che poi però in lui si ferma come aspetto riflessivo e di pensiero, perché lui la incrocia con una attenzione alla prassi alla militanza che gli viene diciamo da una contaminazione marxista ed hegeliana. Se sentite le interviste di Franco Basaglia quando lui diventa direttore della regione Lazio dei servizi, pochi mesi prima della morte, alla domanda ma ora questi pazienti come faranno fuori dagli ospedali psichiatrici? Come verranno accolti? Lui risponde: la società ci deve pensare; la società civile si deve pensare e si deve muovere. Cioè lui crede in una dialettica quasi di marca hegeliana tra una tesi, una antitesi e una sintesi. Cioè lui spera e ha fiducia che rimettendo in contatto il malato mentale spogliato dalla crosta della malattia con il mondo, il malato incontri le contraddizioni della società e da questo venga fuori un rinnovamento.
Tutto questo non accade. Franco Basaglia muore, i servizi si sviluppano più o meno diciamo a macchia di leopardo. Si dice che la legge è stata applicata in maniera imperfetta o parziale, dalla sospensione della malattia mentale si arriva ad un inscatolamento diagnostico ancora più grave. La riforma aveva preso una strada molto sociale e socio-assistenziale, sembrava che occuparsi dell’esperienza interna del paziente fosse una cosa inutile, fosse una cosa retriva, fosse una cosa che serviva a marcare il paziente, a stigmatizzarlo. Bisognava solamente recuperarlo e inserirlo socialmente, e quindi arriva l’associazione psichiatrica americana che propone a partire proprio dalla metà degli anni Ottanta in poi il sistema diagnostico statistico categoriale del DSM-III e diciamo europeo del ICD. Da che dovevamo mettere tra parentesi la diagnosi e la malattia, ci ritroviamo improvvisamente in una gabbia diagnostica spaventosa fatta di cifre e di numeri. Bruno Callieri lo chiamava “il sistema botanico” (…) Kraepelin era un luminare a confronto perché perlomeno guardava la diagnosi di decorso. Invece qui non si capisce come viene applicata una diagnosi numerologica e questi pazienti si trovano oggi ad avere 4-5-6-7 diagnosi a seconda degli psichiatri che incontrano, dei luoghi dove vanno, in questo Kurt Schneider il maestro di Callieri è sempre stato attentissimo, lui scriveva nella psicopatologia clinica: guardate, noi la chiamiamo schizofrenia, ma noi non abbiamo allo stato attuale alcun reperto anatomo-patologico che ci possa far dire che questa è una malattia come le altre. Invece saltato completamente quest’aspetto, tutto questo apparato diagnostico diventa costrittivo sia per il paziente che per l’operatore, e tutto questo in mancanza dell’apporto psicodinamico, psicoanalitico e fenomenologico che erano stati esclusi dall’ondata riformista che si era mossa in una maniera molto rivoluzionaria e molto militante, senza contare che fino a circa il 2000 i manicomi sono stati chiusi per i nuovi ingressi ma di fatto i pazienti che c’erano dentro, a parte quelli che sono stati in grado di uscire e sono stati sistemati in qualche modo o che sono morti, erano rimasti dentro. C’era una quota di cronici importante dentro gli ospedali psichiatrici e di fatto i servizi neonati negli anni 80, si sono occupati per quasi 20 anni, oltre che di sistemare qualche struttura diciamo di cronici rimasti in ospedali psichiatrici, si sono occupati degli acuti, dei giovani, e nel frattempo la psichiatria si era liberata dei tossicodipendenti, dei portatori di handicap, degli alcolisti, dei neurologici, cioè la psichiatria pulita che per il primo ventennio diciamo dagli anni 80 al 2000 si è dedicata in qualche maniera agli esordi trovando però l’amara sorpresa che anche questi pazienti si sono cronicizzati.
Quando io sono entrato nel sistema tra metà degli anni 80 e 90 ho sentito un termine di cui non riuscivo a capire il significato che era “i nuovi cronici”, “la nuova cronicità”. Non riuscivo a capire che cos’era questa nuova cronicità. Evidentemente qualcuno pensava o si era fatto l’idea che messa tra parentesi la malattia mentale, la malattia mentale non esistesse, o quantomeno non si presentasse, o che probabilmente la malattia mentale era un artefatto manicomiale, cioè che quelle persone erano in quelle condizioni perché erano state 10 anni, 20 anni, 30 anni chiuse. E questo è vero, ma evidentemente questa in molti casi era anche una sovrastruttura. Su che cosa? Su quello che era il nucleo psicopatologico che gli psichiatri di marca fenomenologica avevano colto. Perché gli psichiatri di marca fenomenologica che hanno cominciato ad applicare l’analisi husserliana all’interno degli ospedali psichiatrici, avevano cominciato a cogliere delle strutture portanti di senso dentro questi pazienti, e questo tipo di lavoro sarebbe dovuto continuare evidentemente fuori. Mentre in qualche modo, dall’euforia della chiusura dei manicomi si è pensato che questi pazienti non avessero più bisogno di essere indagati. Per esempio a proposito della potente azione fenomenologica di rottura dell’ovvio, ed è quello che vorrei cercare di fare umilmente in questo mio intervento, si è dato per scontato che fuori dall’ospedale psichiatrico il paziente ammalato di mente potesse avere delle relazioni sociali, potesse naturalmente entrare in contatto con gli operatori, entrare in contatto con lo psichiatra, stare nella propria famiglia, coinvolgere la famiglia intorno a lui. Cioè si è dato per scontato tutta una serie di cose che scontate non sono affatto, perché prima la professoressa Ales Bello, sottolineava molto bene che operazione bisogna fare, mettere da parte il pregiudizio, mettere da parte l’atteggiamento scontato, l’atteggiamento naturale, cercare di entrare in contatto col paziente rispetto a come sta strutturando il mondo, su come sta vivendo quello che sta vivendo. Se non si fanno questo tipo di operazioni, che richiedono tempo, passione, amore, riflessione, coinvolgimento, e si prende il paziente come un pacco passandolo diciamo da un manicomio alla migliore casa dorata della terra purtroppo non cambia molto, perché quel paziente trova il vuoto intorno a sé, nel senso che ha un mondo che non riesce a costituire, perché è un mondo fatto di senso comune, è un mondo fatto di una dimensione che lui ha lasciato dietro le spalle, e non ce la fa a riassumersi di colpo.
Per cui questo atteggiamento socio-iatrico della psichiatria di comunità e del territorio in alcuni casi è stato addirittura dannoso perché ha provocato dei forti scompensi dentro i pazienti, ha provocato delle fughe, in alcuni casi dei suicidi, o un aumento di farmaci. Quella delicatezza di cui parlava prima la professoressa Ales Bello è in qualche modo mancata. Perché è mancata? Perché non ci sembrava vero di aver tolto i pazienti da una condizione claustrale e di averli messi in una condizione dove potevano rifiorire, senza pensare che ad un contadino non verrebbe mai in mente di seminare il grano su dei sassi oppure su un terreno non arato semplicemente anche quando è stagione di seminare il grano.
Comunque io vorrei andare avanti con questa mia disamina ma vorrei seguire tre linee precise. Cercherò di non occupare molto tempo ma mi sembra cruciale la tematica. Io vorrei seguire la linea della follia, la linea della cura e la linea del mondo.
Vorrei per non perdermi tenermi agganciato a queste tre linee perché secondo me questo accade ogni giorno nel nostro paese da 40 anni, cioè ogni volta che un paziente o cosiddetto tale accede ad uno dei nostri servizi io vorrei capire come vengono sentiti questi tre fili rossi: quello della follia, quello della cura e quello del mondo.
Veniamo al primo, la follia. Non pensiamo certo noi psichiatri di aver come dire contenuto, raccolto e classificato la follia. Come Sant’Agostino raccoglie con secchiello l’acqua del mare e la mette nella buca. Noi abbiamo fatto delle operazioni concettuali e abbiamo concettualizzato alcuni tipi di follia, gli vogliamo chiamare psicosi di vario tipo, li vogliamo chiamare psicosi affettive, psicosi schizofreniche, disturbi gravi della personalità, è un range abbastanza ristretto. Ma la follia non è riducibile. Noi non ci dobbiamo dimenticare che la follia nasce con l’uomo e riceve per migliaia di anni, prima del Settecento quando arriva la psichiatria come figlia dell’illuminismo, riceve una codifica simbolica ed una codifica metafisica, perché dentro la follia evidentemente c’è un potente pulsione di trascendenza che evidentemente fa saltare il banco, cioè fa saltare il senso comune, fa saltare ciò che ci mantiene normalmente e naturalmente agganciati gli uni agli altri senza che facciamo grossi sforzi, e che determina poi queste parabole che finiscono missgluckten diceva Binswanger, diciamo distorte, bizzarre, mancate. Però comunque c’è questo elemento di incomprensibilità diceva Jaspers, c’è questo elemento che rimanda ad un altrove che è stato codificato di volta in volta come avete a che fare con gli dei o aventi a che fare con il demonio, non ci dimentichiamo il malleus maleficarum con cui l’inquisizione ha mandato al rogo tutta una serie di personaggi, e le caratteristiche della stregoneria sono dei raggruppamenti dei Cluster sindromici e sintomatologici che noi riscontriamo nei nostri pazienti. Non dimentichiamo le navi lanciate lungo i fiumi dell’Europa centrale affinché questi questi matti potessero trovare un loro asilo, una loro realtà.
Accanto a queste collocazioni diciamo metafisiche della follia c’è stata, a partire poi da Ippocrate, la teoria degli umori e Galeno, anche un tentativo di riduzione naturalistica della follia che trova il suo completamento agli inizi dell’Ottocento quando si comincia a capire che il cervello è una base anatomica delle funzioni cognitive. Vengono scoperti centri del linguaggio broca e wernicke. Si vede l’illusione, come diceva Griesinger, di poter far coincidere queste malattie dello spirito e malattia del cervello. Questa riduzione naturalistica della follia è intatta anche oggi. Nonostante tutti i colpi che, sia dal fronte psicanalitico che da quello fenomenologico abbiamo cercato di dare, si è mantenuta pari pari e ha cavalcato soprattutto la dorsale accademica che è rimasta indenne alla contaminazione della psichiatria con le scienze umani. Anzi più che una contaminazione, al tentativo della psichiatria di trovare un suo vero fondamento, visto che non ce l’aveva nell’anatomia patologica e nella fisiologia, di trovare un suo fondamento nelle scienze umane. Cioè il sogno di Binswanger era di fornire alla psichiatria un suo fondamento di scienza umana. Lui era convinto che la fenomenologia potesse rappresentare, questa analisi dei vissuti portata a fondo con la modalità husserliana, potesse rappresentare quello che è l’istologia, la patologia generale, la patologia molecolare cellulare per il resto della medicina. Era convinto di aver trovato finalmente un fondamento, è stato ossessionato per tutta la vita dall’idea di che cos’è la psichiatria e su cosa si fonda la psichiatria, perché ci rendiamo conto che la psichiatria se gli si toglie questo fondamento filosofico umanistico e non trova il fondamento anatomo-patologico, perché non l’ho ancora trovato, la psichiatria diventa diventa nulla, diventa un applicare etichette diagnostiche ed un prescrivere farmaci. Perché poi dalla seconda metà del 900 arrivano i farmaci che consentono sostanzialmente la riduzione dei sintomi maggiori, e quindi l’apertura degli ospedali psichiatrici, il mantenimento del paziente in comunità, ma non fanno avanzare di un passo sul piano della cura se non sono associati ad un lavoro di relazione, ad un lavoro terapeutico. Il farmaco riduce l’intensità del sintomo, apre una breccia, ma se poi non entri e non ti ingaggi col paziente il farmaco rimane là. Quindi questa follia, che ha ricevuto questa riduzione naturalistica e poi una riduzione nosografica, e ha tutto questo passato importante, tutti questi rimandi per dirla in termini fenomenologici ad una dimensione simbolica e metafisica, è ridotta oggi a nulla cioè non viene presa in considerazione.
Non viene presa in considerazione perché è saltata la riduzione psicopatologica, perché anche quella psicopatologica è una riduzione. Sicuramente una riduzione. Però è una riduzione che consente di conferire un senso a quello che il paziente sta vivendo, a quello che il paziente sta provando. Ora farò degli esempi su cui non posso soffermarmi.
Pensiamo alla nozione di delirio citata prima la professoressa Ales Bello che può rappresentare ancora un’icona della follia, nel senso che di fronte a un delirio c’è poco ci si rende conto che il soggetto ha perso il contatto con la realtà. Ma questa nozione di delirio che è una categoria di inscatolamento del dsm-5 la psicopatologia fenomenologica la articola in una maniera molto dettagliata. Un delirio può nascere da uno stato affettivo e quindi se nasce dal piano affettivo è un qualche cosa che tutto sommato consente delle aperture o dei varchi. Oppure un delirio può nascere da una rivelazione o da un’esperienza indicibile, incomunicabile. Quindi può nascere in una zona dove non c’è ancora il linguaggio, quindi quello è un delirio schizofrenico, è un delirio che ha dei contenuti metafisici che coinvolgono il bene e il male, una ristrutturazione del mondo. Cioè è molto diverso dal delirio della porta accanto di quello che ti ha guardato male. Oppure può essere una fiammata transitoria, la follia di un momento da non confondere con la follia dell’esistenza. Ma tutte queste articolazioni del delirio, la nosografia statistica attuale non le dà. Da un solo item “delirio” al quale segue immediatamente la prescrizione di un farmaco antipsicotico, dopodiché il discorso è chiuso. Ecco allora che cosa accade quando manca tutto questo lavoro per cogliere diciamo le strutture eidetiche, cioè per cogliere – al di là del caso clinico che con la semeiologia si compone, al di là della tipologia che comunque già è un’elevazione su un piano superiore – per cogliere l’antropologia, per cogliere come il paziente si rapporta col suo mondo, per cogliere come il paziente si struttura nel tempo e nello spazio.
Ma come è possibile prendere e invitare un paziente che vive una condizione di tempo fermo, di tempo cristallizzato, inviando un programma terapeutico in cui c’è il tempo vivente, il tempo nostro, il tempo che corre, pensando che semplicemente accostando chi vive questo zeitstil stans cioè questo tempo fermo, gelificato, cristallizzato, il tempo dell’inferno, il tempo che non scorre più, soltanto mettendo la contatto col tempo che invece corre si riattiva l’orologio. Non è così perché sono tempi che corrono su piani diversi, uno è il tempo diciamo cronologico, il tempo costituito, l’altro il tempo costituente, il tempo vissuto, è una dimensione interna del paziente che è scollata dal tempo ordinario. Oppure un paziente che vive una crisi profonda nel suo lieb e lo accennava prima la professoressa Ales Bello ovvero nel corpo che egli sente, e noi non ci rendiamo conto che il paziente non sta parlando del corpo che ha, lo sottoponiamo all’indagine, esami, non ha nulla, gli diamo una pacca sulla spalla, e il paziente comincia a strutturare ad un certo punto un delirio, e noi non ci accorgiamo di stare di fronte con un paziente che sta strutturando un delirio. Prendiamo il dsm-5 e pensiamo che sia una somatizzazione, un disturbo somatoforme, come ci troviamo scritto. Ma che cosa significa disturbo somatoforme? Quindi analizzando il primo filo rosso della follia, noi avendo rinunciato a sovrastrutture di tipo metafisico, avendo lasciato cadere l’occasione della psicopatologia fenomenologica perché oggi non viene insegnata né nelle università nè praticata all’interno dei servizi, noi vediamo questo paziente e manchiamo l’incontro, perché non siamo in grado di parlare con questo paziente, non siamo in grado di costituirlo. E vedremo come la mancanza di costituzione del paziente del suo mondo si riflette sul mondo dell’operatore. Prima la professoressa diceva io sento che tu senti, ti tocco tu mi tocchi, Io ti tocco e sono toccato. Se io non visualizzo il paziente, se non lo costituisco, se non entro in relazione con lui, non mi costituisco con il paziente. Per cui l’operatore è frustrato. Da che cosa? Dall’incontro mancato col paziente. E tende ad evitarlo anche se non sta più nel manicomio. Gli psichiatri passano ormai pochissimo tempo con i pazienti, e questo non accade solo a noi, accade nel mondo anglosassone, da tutte le parti. Generalmente il contatto di un paziente e dello psichiatra è risolto ai pochi minuti della somministrazione farmacologica e di una diagnosi tirata più o meno a sensazione, cioè in maniera totalmente aleatoria. Poi per quanto riguarda gli psicologi ce ne sono pochi nei servizi, e quei pochi generalmente vedono pazienti cosiddetti meno gravi. Quindi questo paziente non vedrà mai uno psicologo, viene lasciato ai riabilitatori e agli educatori nella migliore delle ipotesi, perché nella peggiore delle ipotesi e più diffusa delle ipotesi e ora i giovani me lo confermeranno, gli viene praticata una fiala di farmaco cosiddetto deposito long-acting dagli infermieri che vanno a casa ogni mese, li fanno questa fiala, lui resta al chiuso nel suo mondo. Sono pazienti che hanno vissuto la pandemia senza sapere nulla, senza sapere che ci fosse, quando li abbiamo ricoverati sembravano quelli che erano negli ospedali psichiatrici e non sapevano che c’era la guerra durante la seconda guerra mondiale, nessuno glielo aveva detto. La pandemia non gli ha riguardati, ci sono quelli che invece hanno strutturato un delirio sulla pandemia. È così. Perché? Perché nessuno li ha visti. Perché poi una volta che il paziente viene messo in questo tipo di terra viene lasciato a questa terapia e nessuno lo vede più.
Il secondo punto è quello della cura. La cura è impossibile, la vera cura è impossibile perché prendersi cura di qualcuno significa andarlo a prendere dov’è, significa avere quella cautela, quella delicatezza, significa domandarsi da dove sta parlando, come sta vivendo quello che sta vivendo. Quello che c’è è questo assistenzialismo socio-biologico, quindi farmaco e più o meno pensione e sistemazione da qualche parte, con un mantra della recovery, il dialogo aperto come se se fosse questa cosa risolutiva, si dice che c’è bisogno di una tecnica che si chiama “dialogo aperto”, o la psicoanalisi multifamiliare, ma dove viene fatta, ma come viene fatta, ma quanta se ne fa veramente? Ma pensiamo che sia veramente risolutiva. Sono dei mantra che vengono ripetuti e che i servizi che meglio sembrano sono quelli che lavorano nei termini di questa recovery – che poi non si capisce bene che cosa sia – dovrebbe essere una sorta di guarigione sociale del paziente, ma voglio dire non si parla più del paziente. Quindi la cura dove sta? Noi siamo attestati su una non cura, e dunque qual è la differenza rispetto al manicomio? Certo manca il manicomio, ma c’è la manicomialità che è quella della non-cura, perché non viene corsa la scommessa della cura.
L’altro aspetto è il mondo. È vero che questi pazienti erano dell’ospedale psichiatrico esclusi dal mondo, ma è anche vero che non si può con una modalità on off inserirgli includerli nel mondo se noi non lavoriamo sulle loro strutture a-priori, cioè sulla loro capacità di ricostituirlo il mondo, di ricostruire un po’ alla volta e di ricostruirlo attraverso una relazione con noi, attraverso un legame, attraverso uno scambio. Quindi voglio dire che se il paziente vive la cristallizzazione e quindi dentro di sé ha vinto l’idea della morte, perché il tempo fermo del delirio è il tempo che non ha più la speranza, ma rinuncia alla speranza perché ha rinunciato alla morte, perché solo andando verso la morte si ha la speranza, perché il tempo va avanti e la speranza va avanti. E già nel momento in cui noi ci interfacciamo con un paziente così, e viviamo questa atmosfera ghiacciata del tempo fermo e sentiamo lui che vuole tirarci dentro e ci dice “non mi far uscire da qui, non mi fai uscire da dove sto, lasciami dove sto, io sto bene dove sto” apparentemente. E noi che ci angosciamo diciamo “Ma no dai fai un passo, ma vediamo” e lui sente che noi sentiamo, lui sente che noi lo guardiamo con rispetto e con considerazione e non soltanto alzando la colonnina dei neurolettici oppure mandandolo in una struttura per cronici. Quindi questo mondo della vita che l’atteggiamento fenomenologico da Husserl in avanti insegue, come si insegue l’orizzonte, questo mondo fatto di rimandi, questo mondo fatto di contatti intersoggettivi, di palpitazioni, di credenze, di sedimentazione, fatto di passato e di futuro, ecco questo mondo dentro il quale noi possiamo ritrovare anche tracce dell’appartenenza del paziente a questo mondo. E di questo Binswanger era assolutamente convinto, della co-appartenenza del malato mentale anche più grave alle stesse categorie costitutive del nostro mondo, il punto è come dire cercare di attingere a quelle zone spesso non coperte dal linguaggio, spesso sommerse dal silenzio, a volte ingombre dai sintomi deliranti, allucinatori, attingere a quelle zone, comuni, dove possiamo cominciare con delicatezza a costruire un commento tra me e te una un essere insieme in questo nostro mondo, in questa nostra pellicola di mondo, per poi piano piano arrivare anche ad un contatto con l’esterno.
Quindi mi avvio a concludere dicendo che è un peccato perché la nostra organizzazione dei servizi c’è invidiata in tutto il mondo. Ora che c’è stata la pandemia i servizi di salute mentale erano quelli paradossalmente che avevano realizzato un innervazione sul territorio prima di tutti. In tempi non sospetti, oggi si parla di musica di assistenza domiciliare, queste sono cose che non si servizi fanno dal 1978. Il problema non è fare le cose, il problema è come si fanno le cose. Il problema è non perdere un pensiero sulle cose. E così i nostri centri diurni, le nostre strutture comunitarie, le nostre liti di accoglienza, i nostri reparti ospedalieri di psichiatria cosiddetti repartini, famigerati per carità, sono stretti, non c’è spazio, si soffre all’interno, però sono negli ospedali generali, sono negli ospedali civili, non c’è più lotta allo stigma di questo. I pazienti vengono anche volentieri. È difficile trovare un paziente non si voglia ricoverare, anzi a volte arrivano di notte per parlare con qualcuno, per essere ascoltati alle 2 di notte per un problema che magari è del tutto differibile, ma loro vivono con una urgenza e non possono andare la mattina dopo al servizio, perché in alcuni casi al servizio gli viene detto che devono prendere l’appuntamento e devono tornare dopo un mese.
E invece nell’ospedale si sentono accolti. Perché? Perché nella Svizzera un paziente con una crisi psicotica acuta non va all’ospedale generale, ma va ancora all’ospedale psichiatricamente connotato. Da noi il paziente arriva in pronto soccorso come uno che ha avuto un ictus, come un infarto, l’ambulanza lo porta in pronto soccorso. È lì che riceve la consulenza psichiatrica. E prima di arrivare in un reparto psichiatria fa a volte anche la TAC, fa gli esami generali, tutto quello che riusciamo a fare. Quindi voglio dire è un peccato perché si è fatta veramente una grande battaglia di civiltà che c’è stata invidiata in tutto il mondo, una battaglia che noi rischiamo di perdere. Io su questo sono categorico, perché se noi non troviamo il modo di reintrodurre una dimensione che per me, per mia formazione, quella fenomenologica, psicodinamica, come dire un incrocio tra le due, ma se me ne riusciamo a reintrodurre un lavoro che ci consenta di fondare l’incontro su delle solide basi antropologiche, non perdiamo questa sfida ed è finita. Ed è finita perché ora dopo la fase manicomiale, la fase territoriale, noi stiamo andando verso la fase del panottico digitale, verso il manicomio digitale, verso questa enfasi nei confronti della telemedicina, e diversi dei nostri colleghi si sono dati a questa telepsichiatria immaginando che si può mantenere il contatto, ma magari si può anche mantenere il contatto col paziente in questo modo. Ma se incontrandolo faccia a faccia, guardandolo negli occhi, dandogli la mano, stando lì seduto di fronte, tu lo sfuggi, tu lo eviti, tu non lo cogli, come puoi pensare di seguire i pazienti così a distanza? Quindi dobbiamo stare molto attenti, perché se non riusciamo, e qua mi rivolgo, e io per il lavoro che ho potuto fare l’ho fatto, ce ne ho ancora per un po’, ma poi come dire entro in quella dimensione che Callieri chiamava il viale del tramonto, quando diceva “Gilberto sapesse come è lungo il tramonto, com’è bella la luce del sole al tramonto” io entro in quella dimensione. Ma io mi rivolgo ai giovani, se noi non riusciamo a rimettere in piedi una linea centrata categoricamente sull’incontro col paziente, con quel singolo, come diceva Kierkegaard, quel singolo che vive la sua ora della mezzanotte, quella dove cadono le maschere e dove deve deve avere di fronte qualcuno, che non può essere l’equipe, che non può essere il gruppo di lavoro, che non può essere il servizio, che non può essere il budget di salute, che non può essere tutto quello che vogliamo noi, una sigla di doc, dap, ecc., quel singolo che ha saltato la barriera, che sta vivendo l’ora della mezzanotte, e che sta sprofondando, e che ha bisogno di qualcuno che lo sente che in quel momento gli si stanno scuotendo le fondamenta della sua esistenza.
Quindi vorrei concludere ringraziando in particolare Antonello Correale, il professor Pontalti Corrado, perché non perdono occasione di richiamare e con una autorità e un’esperienza maggiore della mia, quanto nei nostri servizi si stia perdendo l’incontro col singolo, il racconto della sua storia, la storia, il tempo da trascorrere col paziente. Delle cose che sembrano elementari ma non sono più elementari. E sono passate perché è tutto burocratizzato, tutto cifrato. E quindi ringraziando Corino che mi ha introdotto al pensiero di Sassolas, e vorrei concludere proprio con un testo di Sassolas del 2006 che si chiama “l’elogio del rischio nella cura psichiatrica”, testo che mi ha colpito profondamente perché anche Bruno Callieri mi diceva, “ricordati che l’incontro col paziente è sempre un rischio una scommessa”. Ecco Sassolas scrive l’elogio del rischio. Che cosa dice Sassolas? Nel 2006 dice: Ormai c’è un lamento, c’è un grido di dolore che arriva da tutti gli operatori della salute mentale, si lamentano delle nuove patologie, dei budget stagnanti, dell’esplosione della domanda, del fatto che sono pochi, del tessuto sociale disgregato, delle amministrazioni, delle responsabilità legali, tutto verissimo. Ma loro dove stanno? Dove rischiano? Vogliono rischiare. Sanno che incontrare qualcuno è rischiare. Nel fare questo lavoro c’è un’etica del rischio, io questo vorrei dire, e parlo ai ragazzi come Raffaele e Francesco e tutti quelli che ci stanno ascoltando. Non si può fare questo lavoro se non si assume il rischio su di sé. Questo non significa eroismi suicidi e cose del genere, ma non si può stare in questa atmosfera, in questo precauzionismo, in questo consenso, in queste linee guida, in questo non fare.
La professoressa Ales Bello ha raccontato forse il caso più trasgressivo di Binswanger, quello nel quale lui si è lasciato andare a quello che si potrebbe chiamare un agito, ha messo la mano al collo alla paziente a rischio di soffocarla. E poi dopo in qualche maniera lui ha corso un rischio in quel momento, lui si è lasciato prendere da una situazione che poi ha analizzato a posteriori ma della quale c’erano i presupposti perché quello non è stato un atto senza senso, non è atto a caso.
Allora Sassolas questo ci dice. Ci dice la situazione è grave, è quella che è. Ma primo nella storia della psichiatria non c’è mai stato un momento facile, non c’è mai stato un momento facile. Se a me dicessero oggi tu non sei contento di come stanno andando le cose, a quale stadio vuoi tornare? A parte cheprima di 200 anni fa non esistevano, e può darsi che in futuro faranno anche a meno di noi quando avranno trovato il modo di chemioterapizzare tutti i nostri pazienti al primo sintomo e non ci sarà più bisogno di parlare. Però hanno sempre trovato ostacoli. Chi ha voluto fare questo lavoro ha sempre trovato ostacoli.
Ora di fronte a un ostacolo due sono le cose: o entriamo in questo atteggiamento del lungo lamento, dell’aspettare la pensione, del contare i giorni che mancano, del lamentarci, del dire non ce la facciamo più, ci manca questo mi manca questo, della rassegnazione; oppure lanciamo il cuore oltre l’ostacolo, andiamo avanti, cerchiamo di incontrare il paziente, nella mia esperienza, modesta esperienza, quello che ho imparato da Bruno è che la fenomenologia è un viatico, è un viatico che ci consente di mantenerci vivi, di mantenere nei limiti del possibile il paziente che incontriamo vivo, e di costruire insieme a questo paziente un percorso di senso. E questo io credo che sia il punto di volta, la svolta per dare ai nostri servizi un futuro diverso, un presente diverso. E chiedo aiuto alla alle filosofe, non vorrei che venisse equivocato questo mio centrarmi sull’incontro come un buonismo, come un essere umani, perché non c’entra. Non c’entra questo. non c’entra nulla. Gli esseri umani umani tra di loro sono peggiori delle bestie più feroci, e capaci delle peggiori efferatezze se non c’è un pensiero che ti mantiene vigile, attento, accorto, delicato, nei confronti dell’altro e nei confronti dell’altro dentro di te, e soprattutto nei confronti della trascendenza che sempre l’altro rappresenta anche nelle manifestazioni più eclatanti della follia. Grazie