Operatori di comunitàPsichiatriaPsicopatologiaSalute mentale

Lo staff è stato internato

Secondo il sociologo Goffman, all’interno dell’istituzione totale esiste una netta differenza tra staff e internati: i privilegi. In effetti, lo staff conserva un privilegio tra tutti, ossia può tornare a casa al termine del proprio turno di lavoro e questo è un enorme privilegio visto con gli occhi di chi vive recluso. C’è anche però un’implicita superiorità morale dei membri dello staff sugli internati: i primi sono tanto giusti da poter fornire i mezzi per redimere o curare i devianti reclusi. Questi enormi privilegi sono certamente innegabili, però nel tempo in cui staff e internati abitano lo stesso luogo afflittivo e violento che è, appunto, l’istituzione totale essi possono sperimentare i medesimi vissuti ed essere vittima dei medesimi meccanismi istituzionalizzati.

Nella permanenza dentro l’istituzione totale anche lo staff si ritrova, implicitamente o consapevolmente, a dover scegliere tra l’appiattimento dell’adattamento primario, ossia quel modellare se stessi e il proprio agire unicamente attorno ai bisogni dell’Istituzione, oppure percorrere quell’impervia strada che ti permetta di realizzare un adattamento secondario, ovvero ritagliarti dei brandelli di autonomia in cui tu sei tu, anche se questo implica andare contro i dettami istituzionali(zzati). Durante il mio tirocinio di specializzazione ho conosciuto un bravo agente di polizia penitenziaria che era capace di trattare con umanità le persone detenute, le ascoltava e si spendeva per aiutarle: quest’uomo viveva un adattamento secondario perché, si sa, lo scopo primario dell’istituzione totale carcere è mantenere l’ordine e la sicurezza, non importa granchè a quale scopo. Questo bravo agente era soddisfatto del proprio operato, ma nessuno gli riconosceva un qualche merito né i suoi colleghi né i suoi superiori, anzi. Effettivamente, la maggioranza dei suoi colleghi erano “della vecchia guardia”, come si dice, ossia avevano e attuavano quotidianamente attraverso il loro lavoro una concezione meramente custodiale e punitiva della pena. Quel bravo agente finiva così per sentirsi molto solo ed era spesso affaticato e demotivato, insomma soffriva.

Gli adattamenti secondari si pagano a caro prezzo all’interno dell’istituzione totale che ha come scopo principale quello di mantenere in vita se stessa, schiacciando tutto ciò che potrebbe potenzialmente metterla a rischio. Tutto questo è un automatismo, un meccanismo di difesa viscerale e prepotente che si attiva davanti a ogni possibile minaccia, che sia incarnata in un membro dello staff e/o in un internato: a questi livelli le differenze si azzerano, una minaccia è una minaccia. È un destino comune ai bravi operatori quello di finire per sentirsi soli, qualche volta disperatamente soli, all’interno dell’istituzione totale che chiede persone malleabili che possano facilmente adattarsi ai bisogni del sistema:

«[…] immediatamente dopo il suo arrivo, risulterà in seguito più docile – nel sottomettersi a queste imposizioni iniziali, la sua resistenza e il suo spirito saranno in qualche modo spezzati.»

E. Goffman, p. 116

In realtà qui Goffman parla degli internati, ma chi ha frequentato le istituzioni totali sa che questa frase è esattamente replicabile anche sugli operatori. Mi è capitato spesso, troppo spesso, di ascoltare spiriti spezzati dall’istituzione totale in corpi di operatori che erano motivati, che volevano lasciare un segno differente lì dentro ma che, alla fine, si sono dovuti arrendere e l’hanno dovuto fare per sopravvivere, psicologicamente. Questa cerniera tra i bisogni dell’Istituzione e i valori personali e professionali degli operatori può aprirsi talmente tanto da risultare intollerabile, tanto che l’unica soluzione è uno strappo. È chiaro allora che se non ci si vuole lacerare bisogna fare in modo che la cerniera sia più chiusa, in modo tale che tenga: bisogna riavvicinarsi ai bisogni dell’istituzione totale, allontanandosi dai propri e assumendosi il rischio di aprire un’altra cerniera, più interna e spesso anche più profonda, tra sé e sé.

Un altro aspetto tipico dell’istituzione totale è l’infantilizzazione degli internati che si trovano in una posizione di totale dipendenza, che comporta dover chiedere il permesso per svolgere qualsiasi azione. Mantenere questo stato di dipendenza degli internati dagli operatori implica anche cristallizzare una mappa del potere, nella quale lo staff è in posizione up e i reclusi sono in posizione down – sorvoliamo qui sulle ricadute cliniche dell’utilizzare una logica di potere con persone che hanno spesso, quasi sempre, una forte conflittualità con l’autorità. Questa gerarchia di potere finisce, quasi inevitabilmente, per essere rivestita anche di valori morali(stici) e quindi può portare a delegittimare un gruppo e a idealizzare l’altro. Queste stesse vuote dinamiche di potere possono però anche essere sperimentate dagli operatori che si possono ritrovare a dover chiedere un consenso esclusivamente formale a chi sta sopra di loro, in termini gerarchici: il fine di queste prassi non è altro che, come già detto, rimarcare la differenza di status tra chi ha potere e chi no rispetto a una data situazione.

Ci sono passaggi totalmente inutili a livello pratico che però devono essere mantenuti per cementare ulteriormente le dinamiche di potere all’interno dell’Istituzione: non importa se quando entri ed esci dall’istituzione tu timbri un cartellino, devi anche firmare un foglio cartaceo che poi verrà controllato dal tuo responsabile che poi pretenderà che tu scriva nel gruppo whatsapp della struttura, ogni fine mese, il totale delle tue ore per vidimartele e consentirti così di emettere fattura. Sembra fantascienza, ma sono sempre stata convinta che la realtà superi drammaticamente qualsiasi finzione ed è tristemente così, come in questo caso.

La dipendenza sperimentata all’interno delle istituzioni totali assume anche un’altra forma, ossia quella legata al dipendere totalmente dagli operatori per avere notizie riguardo il proprio futuro, che sia l’evolversi di un percorso di cura o di una pena. Generalmente gli internati sperimentano un forte senso di incertezza, di precarietà perché i tempi tra la domanda e la risposta sono dilatati, perché quella risposta è composta da diversi pareri che arrivano da gradi gerarchici differenti e per molte altre ragioni ancora. Questo stesso vissuto di incertezza è quello che può abitare anche gli operatori quando arrivano al termine di contratti rinnovati di sei mesi in sei mesi e rispetto ai quali non si ha modo di avere certezza di rinnovo fino all’ultimo, o anche oltre l’ultimo. Non c’è domanda che tu possa fare perché questa nebbia sul tuo immediato futuro si dipani perché la risposta non dipende mai dall’interlocutore che hai davanti ma da qualcuno sopra di lui e così via. Questa incertezza è quella che ti impedisce di progettare e di proiettarti in un futuro diverso dal tuo attuale presente, che ti garantisce il respiro della possibilità. La continuità del tuo percorso sostanzialmente non dipende, solo, da te ma dipende da un intrico di sistemi e poteri e decisioni davanti al quale ti senti solo e impotente.

L’incertezza può essere talmente tanto sistematizzata da divenire intrinseca, almeno, alla posizione lavorativa: essere pagati poco, non avere alcuna certezza di rinnovo, avere contratti brevi – questi sono altri tratti comuni tra operatori e detenuti – essere periodicamente rimessi in discussione attraverso selezioni assurde che mirano a verificare che tu abbia i rudimenti di base per svolgere un lavoro che già svolgi, magari anche da diversi anni, il che rende quella selezione umiliante. Ma non è tanto l’umiliazione a pesare psicologicamente ed emotivamente quanto il messaggio implicito che ti viene comunicato attraverso una selezione così pensata: se pensavi che anni di collaborazione con noi ti affrancassero professionalmente, non è così e ora riparti dal via. Ho visto Colleghe competenti e con molti molti anni di lavoro sulle spalle somatizzare l’ansia per queste selezioni.

Capite fin dove arriva il potere e la violenza dell’istituzione totale? Arriva sui corpi delle persone e entra di prepotenza nelle loro vite, non solo in quelle di chi vi è recluso.

Sistematizzare la precarietà significa far sperimentare alle persone un senso di impotenza e la completa assenza di potere contrattuale. Un modo più qualitativo di sperimentare stabilità è quello di tessere delle alleanze con le persone con cui si condivide la propria condizione: è così per gli internati che si uniscono in gruppi e lo stesso è per gli operatori che all’interno delle equipè di lavoro tessono alleanze più strette con quei Colleghi con cui sentono una risonanza di valori professionali, e magari anche personali. Le alleanze però sono potenzialmente pericolose per l’istituzione totale perché, si sa, l’unione (può) fa(re) la forza e questo l’Istituzione non può assolutamente permetterlo, così l’istituzione totale protegge se stessa – lo ribadisco, questa è la sua unica finalità come scrive Goffman – e davanti all’unione si difende nell’unico modo che conosce, ossia divide le persone e indebolisce e/o spezza i legami.

Qualche tempo fa parlavo con Cecco Bellosi, il quale constatava come in carcere, che è un tipo di istituzione totale, non esistono più movimenti gruppali come era negli anni ’70 ma le persone detenute avviano azioni di protesta individuali, legate alla propria singolare condizione. Cecco vedeva questo come un riflesso della deriva individualista della nostra società esterna e io, in parte, sono d’accordo con lui, ma credo anche che i meccanismi di difesa dell’istituzione totale negli anni si siano (r)affinati e iper-sensibilizzati quindi entrano in azione molto rapidamente e molto prima che il gruppo possa coagulare un pensiero di azione.

C’è un ultimo aspetto che vorrei trattare di questa analogia tra staff e internati: quello dei rinforzi. Infatti, nell’istituzione totale viene utilizzato un sistema di rinforzi positivi basato sulla concessione di privilegi. Per esempio, un privilegio può essere considerato la possibilità di avere una mansione lavorativa, quale, per quanto tempo ecc. Questo sistema basato sulla concessione di privilegi porta inevitabilmente al confronto tra i membri del gruppo: gli internati che non lavorano guardano a quelli che lavorano con invidia e talvolta anche con disprezzo; quelli che lavorano guardano quelli che hanno un lavoro migliore del loro o quelli che ne hanno uno più continuativo nel tempo ecc. Potenzialmente è un’escalation che non ha mai fine perché ci sarà sempre qualcuno in una posizione migliore della propria, soprattutto in un contesto così fortemente organizzato e gerarchico come l’Istituzione. Questa stessa competizione la si può osservare anche nello staff dove gli operatori guardano i turni dei loro colleghi e contano le ore per vedere se c’è qualcuno di più privilegiato o meno. Il risultato è comunque un clima divisivo fomentato da questi malcontenti più o meno celati.

I meccanismi tipici dell’istituzione totale si ripetono sempre identici a loro stessi, in ogni gradino della scala gerarchica che compone questa organizzazione.

Lo staff è stato internato.

Elisa Mauri

Sono Elisa Mauri, psicologa clinica e psicoterapeuta specializzata in psicosomatica presso l’Istituto ANEB. La mia passione per la psicologia è nata al liceo e ha preso forma attraverso il percorso di studi universitari, ma è anche sempre stata legata ad un forte interesse per la marginalità sociale e all’istituzione totale, in particolare per l’ambito penitenziario e psichiatrico. Cerco quindi di coniugare l’attività privata, rivolta verso le singole persone, con una parte lavorativa che incida maggiormente nelle dinamiche di gruppo, come nel caso dei percorsi con persone adulte detenute, e/o sociali. Un altro aspetto per me molto importante è poter contribuire in prima persona a veicolare buona informazione e sensibilizzazione riguardo temi di carattere psicologico e sociologico. Cerco di perseguire questo obiettivo attraverso l’organizzazione di eventi preposti e/o la diffusione di scritti pubblicati su riviste specialistiche e non e attraverso i miei canali social. In tutti questi settori cerco di portare uno sguardo che tenga presente la globalità della persona, come unione di mente e corpo, la sua unicità e che sia in grado di dare peso anche alle caratteristiche dei sistemi che le persone abitano: una visione ecobiopsicologica.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Back to top button