Una recensione a cura di Giuseppe Ceparano dell’ultimo libro di Giovanni Stanghellini “Alle cose stesse. Monologhi sulle forme del corpo e dello spazio” (2024), edito da Quodlibet. La forma del monologo, dove centrale è il vissuto e l’ingaggio in prima persona, fa da filo conduttore a questo secondo volume dell’annunciata trilogia della “Clinica dell’informe”
Ehi Giovanni, comprenderai la mia spregiudicata informalità nel cercare di scriverti questa specie di recensione al testo “Alle cose stesse”. Mi è appena arrivato in questa domenica di maggio, dopo essere stato fuori a comprare il pane ed i lupini per pranzo ed essere passato come ogni domenica al cimitero, la casa dei morti per alcuni, dove foto, fiori e luci delle fiammelle dei ceri fanno da cornice alle ceneri o spoglie di chi è passato per questo mondo. Per me è solo la passeggiata della domenica alle prime luci dell’alba, per non incontrare nessuno, per poter rivedere le foto dei miei e scappare via come un ladro, dopo essermi rubato il mio dovuto nulla. Rientro e dopo poco bussa il corriere, ecco il libro, ora me lo leggo, mi sono detto.
Avevo già letto la “Divina presenza”, anche su quello volevo provare a scrivere qualcosa, ma poi mi sono fermato temendo di lasciarmi risucchiare al di là delle porte dell’esperienza dell’informe, preferendo restare sull’uscio, nell’attesa di poter leggere quello che doveva ancora essere scritto, che non è tardato ad arrivare. Eccolo questo testo, il secondo della trilogia, ora ci prepariamo al terzo ed ultimo. Quelli di mezzo hanno un sapore particolare, non sono l’inizio ma nemmeno la fine, sono il continuo ma di fatto un qualcosa di nuovo, come gli incontri con i nostri pazienti, sempre vissuti nel territorio di mezzo, in mezzo alle loro quotidiane esistenze, in mezzo ai loro racconti, in mezzo alle atmosfere attese e quelle che di fatto si presentano, in mezzo all’Io ed al Tu; insomma, sempre e comunque tra qualcosa che non è ancora decifrabile e che forse non lo sarà mai del tutto.
La lettura mi ha tenuto fermo a casa, solo qualche breve fermata, una lettura iniziata sul divano del salone cucina e terminata sulla poltrona dello studio.
Mia moglie mi ha chiesto come stava andando la lettura ed io ho risposto: sono come in un delirio organizzato, come in uno di quelli dove il paziente si crede di essere un altro, conservando però un qualcosa che salvaguarda l’ambiguo, che ha il sapore della simpatia antipatetica e antipatia simpatetica di kierkegaardiana memoria, come se lasciasse intravedere un qualcosa di dubitante, che fa crollare la possibilità di essere un delirio, che disvela, attraverso una parola, un’immagine, il darsi di qualcosa che una forma non può avere.
Unica interruzione la risoluzione di un problema di matematica di mia figlia, sulle probabilità, insieme abbiamo cercato di ritrovare la formula che ci desse una volta e per tutte la risoluzione a quel problema ed ha tutti quelli della stessa specie. È stato come un salto dalle vie dell’informe che stavo attraversando mentre leggevo, e quello che di fatto ci viene chiesto quotidianamente e che la matematica si presta con forza e dovizia: trovare la formula che risolve il problema.
Giovanni potrà sembrarti strano, ma non credo, che mi sia lasciato andare a parlare della cornice del mentre mi accingevo a leggere e stavo leggendo senza ancora fermarmi sul contenuto di quanto ho letto. Credo che quando si provi ad andare alle cose stesse, ci si imbatte sempre e comunque in un territorio minato, dove tentare di non cedere alla solite e solide interpretazioni resta una fatica immane. Tu ci sai sorprendere cogliendo nell’immagine della soglia, lo spazio naturale dove l’informe trova spazio per ri-esistere. Tu lo spettatore tra le nuvole. Tu che della pietra di Pietro hai lasciato intravedere la sovrumana potenza del participio presente del verbo amare. Tu che ti sei aggirato nei territori oscuri degli interni degli edifici (Penetralia) e dei corpi di carne (Intérieur). Tu che di notti insonni ne avrai avuto esperienza. Tu sei riuscito a lasciarci intravedere la piega entro cui si situa un possibile discorso sull’informe. Ti ringrazio di vero cuore, questo mio grazie non è solo un atto formale, di quelli che hanno ricevuto qualcosa, ma è soprattutto un grazie per avermi accompagnato in questa domenica di maggio di fronte a quello che ci angoscia e ci tiene spiazzati, invitandoci a restare straccivendoli…