Pubblichiamo la prima parte di questo contributo di Andrea Pisano.
Pensiamo a una persona totalmente (dis)persa nella propria sofferenza. Se si ascolta, la si sente urlare, spesso silenziosamente, richiedere un qualche aiuto, una soluzione, una direzione, una strada, una possibilità.
Pensiamo ora al percorso di cura intrapreso con un (indifferenziato) professionista della salute mentale, psicologo o psichiatria, il quale dovrebbe essere idealmente capace di rispondere costruttivamente a questa sofferenza; di considerare la persona in quanto persona, in quanto essere umano carico di esperienze, di storia, di vita; di riconoscere le forme del presentarsi di questo soffrire senza silenziarle all’interno di un’anonima etichetta diagnostica; di risolvere i sintomi e contemporaneamente ascoltarne il senso, riuscendo a pre-occuparsi e occuparsi della persona, a co-costruire insieme un pro-getto, un oltre che non annienti il dolore ma che scaturisca da quest’ultimo e lo renda bellezza.
Per quanto ancora (r)esistano professionisti non solo tecnicamente competenti ma anche umanamente disposti a incontrare una persona – non solo un disturbo – e a creare le condizioni per una cura che sia contemporaneamente un prendersi cura, in-sistono purtroppo anche professionisti incapaci di saper-essere realmente psicologi (clinici) o psichiatri. E questo si ripercuote sul percorso terapeutico e sul ben-essere della persona.
Spesso si trascorrono anni in uno stato di imperturbabile anestesia, costretti in un trattamento privo di qualsiasi reale considerazione per la parola e la relazione, incapace a comprendere, presente al paziente ma assente alla persona e sordo alla sua sofferenza oltre l’isolato sintomo. Spesso ci si ritrova ad essere non solo atterrati dal proprio soffrire ma anche sotterrati da una presunta cura che vuole curare senza curarsi, prescrivere la cura senza prendersi cura.
Questa assenza si tratta di un qualcosa insito nella stessa cultura dei servizi sanitari, in cui si ritrova spesso “una sorta di rimprovero, talora lamentela dichiarata, per una mancanza di “umanità”, di contatto interpersonale, di comprensione di esigenze che vanno oltre il tecnicismo delle scienze mediche attuali” (Imbasciati, A., 2009: p. 1). Nei servizi sanitari operatori e pazienti sono considerati numeri (cfr. Imbasciati, A., 2009: p. V); numeri da cui si ricavano numeri per rispondere statisticamente a obiettivi di carattere prettamente finanziario in linea con le scelte operative dettate dalla fabbrica sanitaria orientate da una sorta di determinismo economico (Caretti, V., & Lombardo, G. P., 1981; Zanzi, M., 2002; Cipriano, P., 2013; Dario, M., et al., 2016: pp. 552-555). Senza contare quanto l’assetto istituzionale contemporaneo “attraversato da un apparato di autoreferenzialità burocratica” (Priani, E., 2012) remi contro il crearsi di uno spazio di assistenza e cura attento alla persona. Tutto questo condiziona un certo autentico poter-essere del professionista psicologo (clinico) o psichiatra all’interno dei differenti contesti sanitari.
Cosa serve quindi allo scienziato clinico del mentale per poter umanamente esercitare la propria professione? Antidoto a questa assenza potrebbe ritrovarsi nella formazione, in un differente pro-getto formativo da parte dell’istituzione universitaria che permetta di costruire una coscienza professionale, una distinta concezione identitaria su cui poter concretamente creare un proprio saper-essere e di contrastare criticamente i vuoti presenti nel sistema di cura. Formatio e concezione identitaria sono strettamente interconnessi: comprendere come saper-essere uno psicologo (clinico) o un medico-psichiatra – e come formare a un certo saper-essere – implica necessariamente e in primis sapere cosa siano la psicologia (clinica) e la psichiatria. Ma cosa sono la psicologia (clinica) e la psichiatria? Quanti sanno rispondere? Queste scienze cliniche del mentale sono scienze cliniche di confine. Definire una distinta concezione identitaria corrisponde in questo caso a riappropriarsi consapevolmente e criticamente della propria indefinitezza, del proprio essere scienze cliniche poliformi, di quanto sia complesso l’uomo e l’umano: per poter ek-sistere quindi in quanto scienze cliniche dell’uomo per l’uomo e non solamente in-sistere perpetuando una concezione frammentata di quest’ultimo devono sostare insieme in un indifferenziato terreno di com-prensione reciproca. Devono necessariamente incontrarsi in una radura(lichtung) per co-costruire un sapere oltre le fratture dell’attuale contesto storico-culturale, oltre le proprie contraddizioni interne, oltre il dualismo cervello-mente e oltre l’incastro di isolate conoscenze pre-costruite – spesso assenti al reale confronto con le complesse ramificazioni di quello che pretendono di conoscere. Quale formazione quindi per sapersi relazionare con il paziente nel suo essere una persona sofferente; un essere umano spesso incapace di essere presente alla sua stessa sofferenza? Quale formazione per rimediare – soprattutto nell’incontro terapeutico – alla concezione di un uomo ridotto dall’uomo stesso in qualcosa di dis-umano?
Questa – seppur con le dovute eccezioni – la situazione attuale: contenutismo e tecnicismo caratterizzano la formatio di studenti di psicologia e psichiatria, spesso costretti nell’apprendimento nozionistico di un sapere frammentato, statico, acritico e astorico, di procedimenti e norme, di una techne terapeutica fine a se stessa da esercitare in una relazione svuotata di senso; si tratta di una formazione incentrata sull’oggetto della propria professione, sul cosa sia necessario per essere-considerato uno scienziato clinico della psyché e sul dove poter articolare concretamente questo sapere. Si tratta essenzialmente di una formazione morta, distante, vuota, non interessata a creare ma solamente a produrre e riprodurre un sapere e un saper-fare. Risulta assente una concezione della formazione in termini di processo vivo, estetico, dialettico, intersoggettivo, gravido: non si lascia spazio ad un formalismo formativo, capace di inserire prospetticamente questi saperi e competenze in una dimensione omnia-cum-prehendens (letteralmente che afferra tutto insieme) e di conferire quindi forma, consistenza alle conoscenze apprese; di riorientare tutto questo verso il soggetto della propria professione, verso una riflessione incentrata sul come porsi nella relazione oltre la formazione universitaria, oltre il costrutto e oltre la tecnica; incentrata sul saper-essere psicologo (clinico) o medico-psichiatra e sul saper-essere-con reciproco e di fronte all’uomo e alla sua sofferenza.
Storicamente la scienza psicologica e psichiatrica si era scordata del proprio poter-essere (anche) una professione, contribuendo al crearsi di una spaccatura tutt’ora presente tra una dimensione scientifico-accademica e una controdimensione professionale-clinica: sete di conoscenza, scientismo e tensione naturalistico-positivista al possesso di un sapere oggettivo e scientifico si sono consolidate all’interno delle istituzioni universitarie mentre, distanti da questi studi su un uomo sine animo, diverse persone hanno lentamente provato a creare uno spazio di reale incontro con il paziente e a riflettere sulle ramificazioni cliniche del proprio specifico sapere. La formazione universitaria – incentrata su una concezione scientifica e spesso conservatrice della psicologia e della psichiatria – si era storicamente disinteressata della professionalizzazione dei propri studenti, creando una profonda lacerazione ancora presente tra una scienza spesso insensibile, sorda alle richieste di aiuto e una professione instabile, che prova ad ascoltare nonostante priva di un terreno fertile su cui potersi sostenere: sapere e saper-fare sono maturati isolatamente, reiterando ciascuno una propria concezione dell’uomo, del malato mentale e della sua sofferenza; dimenticandosi dell’indissolubile interdipendenza reciproca secondo cui al saper-fare corrisponde necessariamente un sapere che dovrebbe a sua volta riorientarsi per sostanziare, attraverso i propri studi, un concreto saper-fare. Come scrive M. Lang (2017: p. 626) “ritenere che la pratica clinica sia un’arte e considerare irrilevanti gli aspetti di ricerca, è una bad practice, così come avere poca esperienza clinica – nell’accezione originaria del termine, cioè «al letto del paziente» – può essere un fattore di rischio analogo alla non conoscenza dei dati di ricerca”. Questa spaccatura deve essere tuttavia compresa in una riflessione critica che non si fermi esclusivamente ad evidenziarne la mera presenza o a limitarsi nella sua stessa analisi al problema della formazione di saperi e competenze, in quanto “si è trascurato il fatto che l’impostazione del curriculum degli studi costruisce una forma mentis destinata a influenzare gli apprendimenti successivi” (Sala, G., 2009: p. 147): se attualmente all’interno del contesto universitario lo studente apprende essenzialmente un sapere e occasionalmente un saper-fare – spesso intriso di un vetero-conservatorismo o distaccato dal reale, dal concreto o quantomeno sensibile intervenire della professione, per comprendere il quale si necessitano ulteriori studi, esperienze, incontri con la sofferenza umana oltre la dimensione formativa istituzionale – questi non apprende un saper-essere, ossia come poter-essere nella relazione con la persona, come poter com-prendere criticamente tutti questi frammentati saperi e inserirli in una forma di intervento che sia consapevole dello strumento che utilizza, della sua storia, dei suoi limiti e del suo fine. R. Carli (2006) scrive, per esempio, di un processo di deformazione entro la formazione clinica in psicologia (se orientata da una prospettiva individualista) derivato dalla “presunzione di normalità (o, se si vuole, di conformismo)” (Carli, R., 2006: p. 57) nello scienziato clinico del mentale: “Questo è specifico della psicologia così intesa, si badi bene, come anche della psichiatria; non della chirurgia, dell’ortopedia o della pediatria. Spieghiamoci: un chirurgo che opera di tumore gastrico deve possedere una buona tecnica operatoria; ma nessuno gli chiede di essere esente da tumori ed in particolare da tumori gastrici. […] Ma uno psicologo clinico che cura una persona affetta da disturbi di attacco di panico non “può” essere affetta dallo stesso disturbo, né da altri problemi citati nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM). In qualche modo si presume che lo psicologo clinico, così come lo psichiatra, debba essere “normale” (ibidem). Cosa comporta questa imposizione ad extra di dover-essere normali? Quanto condiziona il saper-essere dello psicologo e dello psichiatra? “Supponenza, distacco emozionale, falsa modestia, atteggiamento onnipotente, tendenza a comportarsi come un oracolo, affettata disponibilità e serenità, sorriso falsamente benevolo sempre affiorante nell’espressione, pacatezza inquietante, tutto questo ed altro ancora caratterizza il nostro psicologo clinico pronto a prendersi cura dell’“altro”, malato, a partire dalla sua “normalità” competente” (ibidem). Lo studente quindi impara raramente come saper-essere realmente presente alla sofferenza del malato e quindi come saper-essere umanamente e realisticamente uno psicologo clinico o uno psichiatra: la “posizione più ambigua” – scrive M. F. Freda (2009: p. 82) – “è stata assunta dal saper essere che, se da un lato si è configurato come precipitato ultimo di sedimentazione del fare, dall’altro si è connotato come prerogativa personale, innata, disposizionale, non soggetta ad alcun processo di apprendimento per lo meno in ambito universitario”.
Quale formazione sarebbe quindi necessaria?
BIBLIOGRAFIA
Caretti, V., & Lombardo, G. P. (a cura di) (1981, Marzo 6-7). Psicologia e psichiatria: quale cultura per i servizi psichiatrici. Centro Culturale Mondoperaio, Roma, Italia: Bulzoni Editore.
Carli, R. (2006). Psicologia clinica: professione e ricerca. Rivista di Psicologia Clinica, 1(1), 48-60.
Cipriano, P. (2013). La fabbrica della cura mentale: diario di uno psichiatra riluttante. Milano, Italia: Elèuthera.
Dario, M., Del Missier, G., Stocco, E., & Testa, L. (2016). Psichiatria e psicoterapia in Italia dall’unità a oggi. Roma, Italia: L’Asino d’oro edizioni.
Freda, M. F. (2009). La connessione tra teoria e prassi nella formazione dello psicologo clinico. Rivista di Psicologia Clinica, (2), 80-91.
Imbasciati, A. (2009). La mente medica: che significa “umanizzazione” della medicina? Milano, Italia: Springer-Verlag Italia.
Lang, M. (2017). Armchair psychologist o psicologo clinico? Giornale Italiano di Psicologia, 44(3), 623-628.
Priani, E. (2012). Auscultum. Psychiatry On Line Italia. Disponibile 16 Marzo, 2021, da http://www.psychiatryonline.it/node/2134
Sala, G. (2009). Medicina e psicologia tra potere e impotenza. Milano, Italia: Franco Angeli.
Zanzi, M. (2002). La psicologia. Le ragioni del suo conflitto con la cultura psichiatrica e l’organizzazione sanitaria. Psicoterapia e Scienze Umane, (4), 73-88. [Franco Angeli].