L’esistenza precede l’essenza.
– Jean-Paul Sartre
Non soltanto io non esisto di fatto per me solo, ma io stesso non posso pormi, in quanto io, senza formarmi e senza realizzarmi insieme con gli altri.
– Karl Jaspers
Ai passi avanti compiuti dal modello epistemologico della soggettività fanno da contraltare, come abbiamo iniziato a vedere nel precedente articolo, nuovi problemi. Una conoscenza che assolutizza il soggetto e le sue visioni del mondo non tenendo in considerazione il dialogo con l’alterità, infatti, rischia di far cadere la fondamentale domanda di senso (cui l’uomo è sempre chiamato a rispondere) in un baratro di relativismo, in cui ognuno si sente in diritto di rinchiudersi nella propria torre d’avorio. Questo modo di concepire la conoscenza, che rinuncia ai frutti del dialogo intersoggettivo per la fatica che esso comporta, rivela ad un’analisi attenta molti limiti, cui il tardo Husserl aveva già tentato di porre rimedio.
Nel campo della psicologia tali limiti emergono in tutta la loro problematicità. Basti pensare, ad esempio, all’ambito della psicoterapia, dove ogni epistemologia meramente soggettiva (idealistica o essenzialistica che sia), pur ricollocando il soggetto al centro del processo conoscitivo, perde la visione di un orizzonte di senso condiviso e con esso la possibilità di compiere le seguenti operazioni (Ariano, 2012):
- Adottare un modello antropologico che indirizzi l’agire terapeutico;
- Costruire una teoria psicopatologica chiara e distinta che renda possibile il confronto e la condivisione da parte di una molteplicità di osservatori-operatori;
- Costruire ed utilizzare tecniche terapeutiche differenziate;
Riguardo questi punti la fenomenologia ha per molto tempo assunto una posizione diffidente. Utilizzando un’espressione di Binswanger, possiamo dire che essa si è voluta mantenere “teoreticamente ateoretica” per non cadere nelle trappole della nosografia e dell’oggettivismo. È anche per questo motivo, forse, che l’approccio fenomenologico “non poteva tradursi in una definita visione dell’uomo da cui ricavare principi e tecniche applicabili in un setting” (Armezzani, 1998, p. 210), quasi che fissare una volta per tutte la propria prospettiva antropologica e antropopatologica rischiasse di farne perdere gran parte della portata innovativa. Negli ultimi anni, invece, la corrente della fenomenologia sembra aver mostrato maggiore interesse per la costruzione di un modello condiviso. Ciò è avvenuto grazie allo sviluppo della neurofenomenologia nell’ambito della ricerca di base e della filosofia della mente, e al lavoro di alcuni autori tra i quali Di Petta, Fuchs, Parnass e Stanghellini nell’ambito della psicopatologia.
D’altro canto, nonostante la diffidenza verso la costruzione e l’utilizzo di un modello teorico ben definito, si può affermare che proprio l’approccio fenomenologico è quello da sempre più attento alla dimensione intersoggettiva dell’esistenza. A partire dal suo stesso fondatore, infatti, la fenomenologia ha attribuito alla intersoggettività il valore di pilastro fondativo del mondo-della-vita (Lebenswelt):
“Le cose sono bensì preliminarmente, secondo il loro senso d’essere, cose per tutti, in modo tale che soltanto nella connessione di coloro che se le rappresentano e le conoscono attingono il loro senso relativo ed eventualmente conoscitivo (il contenuto con cui esse sono, relativamente o assolutamente, in quanto cose per tutti). (…) La forma ontologica del mondo è quella del mondo dato per tutti” (Husserl, 1954, p. 493).
E ancora:
“… tutto ciò che vale per me vale anche per tutti gli altri uomini (…) Sperimentandoli come uomini, li comprendo e li accetto come “io”, quale io sono, e riferentisi ciascuno al suo mondo circostante naturale: in maniera tale però che concepisco il loro e il mio mondo circostante come un solo e medesimo mondo oggettivo, che si diversifica soltanto nel modo con cui giunge alla coscienza di ciascuno di noi. Ciascuno ha il suo luogo da cui vede le cose alla mano e quindi a ciascuno le cose appaiono diversamente. (…) Con tutto questo, noi ci intendiamo con i nostri simili e poniamo insieme una realtà oggettiva spazio-temporale, quale nostro comune mondo esistente, a cui noi stessi apparteniamo” (Husserl, Ideen, trad. it. A cura di G. Alliney e E. Filippini, vol. I Torino 1965, p. 61).
In questo modo Husserl rende possibile pensare in modo nuovo al concetto di oggettività, rivoluzionando l’epistemologia, e influenzando il successivo sviluppo della psicologia e della psicoterapia. Il filosofo tedesco scopre un’oggettività radicalmente diversa da quella del vecchio positivismo di stampo ottocentesco, che sposta il focus dell’attenzione dalla realtà in sé al dialogo tra le visioni soggettive. Si evita così sia di postulare una realtà al di là di noi (epistemologia presoggettiva) sia di perdersi nelle nebbie del relativismo (epistemologia soggettiva), attribuendo consistenza ontica[1] ad “un’oggettività che si costituisce, dunque, come incontro e reciproca conferma delle prospettive sulla cosa, che è il risultato, mai definitivo, dell’intersoggettività” (Armezzani, 1998, p. 170).
Husserl sembra introdurci all’idea che un mondo oggettivo può essere sperimentato solo da diversi soggetti in rapporto tra loro, cioè da una molteplicità di punti di vista diversi che si pongono tra loro in una relazione di scambievole comprensione. È come se la realtà nella sua oggettività prendesse forma ad un livello logico superiore rispetto a quello del singolo soggetto. E’ così dall’incontro e dall’accoppiamento strutturale[2] tra più soggetti che emergerebbe la vera essenza dell’oggettività. Oggettività che diventa, a questo punto, oggettività dell’intersoggettività. Come sottolineato dallo stesso Husserl (ma vedi anche Zahavi, 2001; Gallese 2008; Stanghellini 2017), in questo senso è il carattere di alterità dell’altro che fonda la consistenza oggettività della realtà e con essa una forma di “oggettività più rigorosa, risultato di misure sperimentali e dell’accordo degli spiriti fra di loro” (Sartre, 1943, p. 368).
È chiaro che in una prospettiva di questo genere la possibilità del dialogo diventa la vera chiave di volta della nuova epistemologia dell’intersoggettività. Come può un individuo, rinchiuso nei limiti del suo mondo-della-vita, sperare di incontrare un altro mondo, più o meno distante dal suo, aprendosi al dialogo e all’essere-con-l’altro (Mit-sein)[3]?
La fenomenologia sembra fornire una strada percorribile per rispondere a questa domanda nel momento in cui, con Husserl e con la Stein, individua nell’Einfülung, cioè nella possibilità di empatizzare con l’altro-diverso-da-me, la modalità fondamentale attraverso cui i diversi soggetti costruiscono ponti tra loro:
“Imprigionato nei limiti della mia individualità non potrei arrivare al di là “del mondo come appare”, e in ogni caso si potrebbe pensare che la possibilità della sua esistenza indipendente, che potrebbe essere data ancora come possibilità, resti però sempre indimostrabile. Ma appena supero questi limiti con l’aiuto dell’empatia e ottengo una seconda o una terza apparizione, indipendente dalla mia percezione, del medesimo mondo, questa possibilità è dimostrata. L’empatia diventa così il fondamento della esperienza intersoggettiva, condizione di possibilità di una conoscenza del mondo esistente esterno” (Stein, 1917, trad. it., pp. 134-135).
Così l’empatia diventa la strada attraverso cui sperimentare l’esistenza di soggetti diversi da noi, nuovi punti zero di orientamento spazio-temporale (Merleau-Ponty, 1945) che ci spingono ad oltrepassare la visione soggettiva del nostro mondo per approdare a quella di un mondo oggettivo/intersoggettivo. Mettendo fuori gioco le concezioni unilaterali di una realtà assoluta e di un soggetto assoluto, la fenomenologia scopre così che la cosa oggettivamente reale si costituisce come oggetto che si mantiene identico nella molteplicità delle apparizioni di una pluralità di soggetti (De Monticelli, 2009). In questo senso il dato oggettivo, la cosa reale, diventa una regola per le apparizioni possibili, che assurge al livello di oggettività solo quando viene inserita in un circolo di scambio intersoggettivo.
Un aiuto per comprendere quanto il nostro essere-per-l’altro influenzi il processo di costruzione della conoscenza ci viene dalla psicopatologia. Non solo per gli psichiatri ma anche per il senso comune la malattia mentale più grave, quella considerata “la follia” per eccellenza, è la schizofrenia. La core structure (struttura nucleare) di questo disturbo è secondo molti la mancanza di contatto con la realtà (gli psicoanalisti direbbero forse la mancanza di esame di realtà). Ebbene, se per la fenomenologia la realtà non è più una realtà esistente in sé, ma una co-costruzione nella dimensione dell’intersoggettività, è chiaro che i fenomenologi devono fornire delle spiegazioni diverse per questo disturbo, più attinenti la relazione con l’alterità. E in effetti è proprio così. La tradizione fenomenologica, coerente con quanto affermato finora, attribuisce proprio alla mancanza di intersoggettività, alla perdita di contatto con l’evidenza naturale (Balnckenburg, 1971), alla dissoluzione dei fondamenti (Grundlagen) intersoggettivi, il primum movens del disturbo schizofrenico. In ambito fenomenologico, anche in tempi recenti, questo “disturbo della fondazione intersoggettiva” (Ballerini, Di Petta, 2015) è ormai considerato una delle caratteristiche fondamentali della schizofrenia. Stanghellini (2017) allarga ulteriormente questo discorso, considerando la “crisi del dialogo con l’alterità” il luogo principale di ogni forma psicopatologica.
Ma facciamo un altro esempio utilizzando l’ambito della psicodiagnostica. Finché credo in una realtà assoluta fuori di me (epistemologia presoggettiva), nel processo diagnostico tenterò di annullarmi del tutto, di rendere me stesso il più neutrale possibile, affidandomi agli strumenti di misura a mia disposizione nella speranza che essi mi forniscano, con una certa approssimazione, la verità della persona che sto tentando di diagnosticare. Quando invece divento consapevole della singolarità che caratterizza il mio punto di vista sull’altro (epistemologia soggettiva), allora pongo in dubbio l’utilità stessa di una diagnosi, che in fondo non diventa altro che una descrizione soggettiva, l’inutile reificazione di un vissuto soggettivo. In un’ottica intersoggettiva, dove un’osservazione per essere considerata valida deve passare al vaglio della corroborazione di una pluralità di osservatori, la diagnosi assume il valore di un’oggettività nuova[4], che deve fondarsi sul dialogo e sulla condivisione.
Per molto tempo la verità è rimasta nascosta in una dimensione disumana al di là della nostra esistenza. La fenomenologia si è assunta il compito di trarla fuori da questo luogo arido, riconsegnandola nelle mani dell’uomo. Infine, quando in questo mondo l’uomo ha scoperto di essere uomo tra altri uomini, la verità si è trasformata nell’incontro di una concorde molteplicità di soggetti che la vivono e se la rappresentano.
Questa nuova oggettività della intersoggettività si differenzia chiaramente sia da quella delle vecchie prospettive epistemologiche sia anche dalla comune accezione del termine “oggettivo”.
Innanzitutto, essa è sempre incompiuta. È un’oggettività perseguibile solo per correzioni ed aggiustamenti, e tuttavia non è meramente postulata (come nel caso della verità presoggettiva), ma fondata sul mondo-della-vita, sul soggetto, sul dialogo tra i soggetti.
In secondo luogo, è un’oggettività che emerge dalla comunicazione esistenziale[5], cioè tra soggetti incarnati che si incontrano in un mondo dominato dalla storicità e dalla contingenza dell’esistenza. Da ciò deriva che “se la verità è legata alla comunicazione, essa non può attuarsi che nel suo divenire e perciò che essa, in tutta la sua profondità, non è dogmatica, ma comunicativa” (Jaspers, 1960, trad. it., p. 111, corsivo dell’autore).
Infine, resta da sottolineare che l’idea di oggettività sposata in questo modo dalla fenomenologia, non è quella di un’oggettività come polo opposto della soggettività. Secondo questa prospettiva, invece, “la soggettività, piuttosto che essere un intralcio o un ostacolo, diventa per l’oggettività e per la ricerca della conoscenza scientifica un requisito assai più importante di quanto non lo sono, per esempio, i microscopi e gli scanner, che servono a niente se lo scienziato non è un soggetto di esperienza” (Gallagher, Zahavi, 2008, trad. it., p. 67).
Alla luce di quanto detto finora, ecco che anche per lo psicologo di orientamento fenomenologico-esistenziale si apre la possibilità di rispettare i tre punti di cui abbiamo parlato all’inizio di questo articolo:
- Adottare un modello antropologico che indirizzi l’agire terapeutico;
- Costruire una teoria psicopatologica chiara e distinta che renda possibile il confronto e la condivisione da parte di una molteplicità di osservatori-operatori;
- Costruire ed utilizzare tecniche terapeutiche differenziate;
Tutto ciò sulla base di una scienza psicologica della soggettività (Armezzani, 1998) che nella costruzione delle proprie ipotesi di spiegazione vada alla ricerca della condivisione e con essa dell’oggettività. Quest’ultimo è il compito non facile a cui sono chiamati a rispondere gli psicologi e gli psicoterapeuti, come tutti coloro che in qualche modo svolgono un’attività di ricerca nell’era dell’epistemologia intersoggettiva.
Per avvicinarsi quanto più possibile a questa meta è però necessario adottare un nuovo atteggiamento, che è quello intersoggettivo, capace di costruire ponti tra i soggetti. Per aprirsi ad un dialogo fruttuoso con il mondo dell’alterità, tuttavia, c’è certamente bisogno di regole. Ariano (2009) ne propone quattro che definisce regole dell’intersoggettività:
- Avere chiaro il proprio punto di vista e renderlo coerente;
- Entrare nel mondo dell’altro dal suo punto di vista e renderlo più coerente;
- Dialogare con tutta la forza e sapere quando si è saturi;
- Usare silenzio rispettoso ed amorevole quando il dialogo verbale non è possibile.
Applicare queste regole nel dialogo e nell’incontro, nell’ambito della psicoterapia come in quello della ricerca scientifica, vuol dire attuare un cambiamento radicale del comune modo di porsi nei confronti dell’Altro. Impegnarsi in un confronto continuo, provare e riprovare nonostante difficoltà e frustrazioni, rispettare il punto di vista dell’altro e anche il proprio, diventano un metodo attraverso cui perseguire la verità in una dimensione intersoggettiva. Tutto ciò spiana la strada ad un modo più umano, più umile, meno riduzionistico e forse anche più fruttuoso, di fare scienza.
In conclusione, possiamo affermare che lo scopo di un’epistemologia veramente intersoggettiva è quello di integrare la propria prospettiva con quella degli altri, nel tentativo di dar vita a modelli sempre più complessi ed efficaci, pur nella consapevolezza di non poter mai raggiungere la completezza e l’esaustività.
Note:
[1] Il termine ontico fa riferimento all’esistenza. E’ usato spesso in contrapposizione al termine ontologico che invece individua la natura dell’essere.
[2] Il concetto di accoppiamento strutturale rimanda alla tradizione di ricerca biologica e costruttivista inaugurata dai neurobiologi Humberto Maturana e Francisco Varela. L’accoppiamento strutturale è la relazione di influenza reciproca che unisce ogni sistema biologico al suo medium (ambiente) e ad ogni altro sistema biologico con il quale interagisce.
[3] Heidegger polemizza con Husserl per il cosiddetto argomento dell’analogon che egli interpreta come una costruzione secondaria dell’alterità. Per rappresentare invece la natura essenziale e costitutiva della co-presenza egli parla di Mit-dasein, di essere-con-l’altro, in base al quale l’esistenza di ogni individuo si da originariamente e sincronicamente con quella dell’altro. In realtà, come sembra ad Armezzani (2001), anche per Husserl la fondazione dell’alterità si colloca su un piano molto profondo ed originario.
[4] Questo lo sapeva bene Foucault che nei suoi testi scrive di come le diagnosi degli psichiatri abbiano il peso di macigni legati alle caviglie dei pazienti. In ottica costruttivista la diagnosi deve trasformarsi da subdolo strumento di controllo sociale a mezzo attraverso cui lenire la sofferenza mentale, dando la possibilità ai pazienti di aprirsi ad una crescita fruttuosa. Per far ciò, il concetto di diagnosi deve essere ovviamente sottoposto ad una serie di cambiamenti importanti.
[5] Nel suo Ragione ed esistenza Jaspers critica duramente l’idea di una verità fuori di noi, ferma ed immutabile, che abbia già in sé un senso compiuto da scoprire. Egli afferma, invece, che la conoscenza e la verità sono da produrre nel dialogo, attraverso una “volontà di comunicazione radicale che sorga dalla ragione e dall’esistenza” (Jaspers, 1960, p. 115).
Bibliografia:
- Ariano G., Di Gaetano S., Pellecchia D. (2012), Psicoterapia nella storia. Un modello integrativo per gli indirizzi, le correnti e gli autori. Vol. 1: Le origini e i padri, Edizioni Sipintegrazioni, Casoria.
- Ariano G. (2009), Esercizi di intersoggettività. I V(v)altri tra relativismo ed intersoggettività, Edizioni Sipintegrazioni, Casoria.
- Armezzani M. (1998), L’enigma dell’ovvio. La fenomenologia di Husserl come fondamento di un’altra psicologia, Unipress, Roma.
- Ballerini A., Di Petta G. (2015), Oltre e di là dal mondo: l’essenza della schizofrenia, Giovanni Fioriti Editore, Roma.
- Balnckenburg (1971), La perdita dell’evidenza naturale. Un contributo alla psicopatologia delle schizofrenie pauci-sintomatiche, Raffaello Cortina Editore, Milano.
- De Monticelli R. (2009), Prefazione di Neurofenomenologia: le scienze della mente e la sfida dell’esperienza cosciente, Bruno Mondadori editore, Milano.
- Gallagher S., Zahavi D. (2008), The Phenomenological Mind, trad. it. La mente fenomenologica. Filosofia della mente e scienze cognitive, Raffaello Cortina, Milano.
- Gallese V. (2009), Corpo vivo, simulazione incarnata e intersoggettività. Una prospettiva neuro-fenomenlogica. In Cappuccio M. (a cura di) Neurofenomenologia: le scienze della mente e la sfida dell’esperienza cosciente, Bruno Mondadori editore, Milano.
- Husserl E. (1954), Die Krisis der europaischen Wissenschaften un sie transzendentale Phanomenologie, trad. It. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano, 2008.
- Sartre J. P. (1943), L’Être et le Néant, trad. It. L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano, 2013.
- Sartre J. P. (1946), L’existentialisme est un humanism, Parigi, Nagel, 1946, trad. It. L’esistenzialismo è un umanismo, Mursia, 1996.
- Stanghellini G. (2017), Noi siamo un dialogo. Antropologia, psicopatologia, cura. Raffaello Cortina Editore, Milano.