Nel corso della mia carriera universitaria ho più volte studiato la valenza terapeutica del gruppo e il suo utilizzo con i pazienti psicotici, scegliendo persino di incentrare la mia tesi magistrale proprio sulla sua importanza per questo tipo di pazienti, nell’utilizzo della tecnica dello psicodramma. Ciò che mi mancava però era l’osservazione diretta di ciò che conoscevo solo teoricamente e sono felice di averne potuto fare esperienza durante il mio tirocinio post lauream, che ho svolto all’interno della casa alloggio della cooperativa sociale Agape, sita a Salerno. La casa alloggio in questione offre ospitalità a dieci ospiti di ambo i sessi e di età superiore ai 18 anni che soffrono di disturbi psichiatrici, per i quali, le diverse figure professionali che vi lavorano, ispirandosi ai principi della psicoterapia fenomenologica, attivano progetti terapeutici e riabilitativi, la cui finalità principale è il miglioramento globale della qualità di vita dei pazienti. Ogni utente ha un suo terapeuta di riferimento con il quale svolge terapia una volta alla settimana e stabilisce degli obiettivi da raggiungere per lavorare sugli aspetti disfunzionali che può presentare in diversi ambiti. In quanto tirocinante, il mio compito, oltre al partecipare alle terapie di gruppo e alle attività laboratoriali offerte dalla struttura agli utenti, è stato quello di affiancare questi ultimi nelle loro attività quotidiane spronandoli affinché scegliessero le strategie migliori per il raggiungimento degli obiettivi posti e potessero così raggiungere un’autonomia personale, sociale, lavorativa ed economica.
Lo stare a contatto con dei pazienti con diagnosi di psicosi è stata un’esperienza altamente formativa e interessante che mi ha permesso non solo di osservare in prima persona ciò che avevo studiato, ma anche di capire come dovermi approcciare loro. Man mano che trascorrevo le giornate al loro fianco, apprendevo sempre qualcosa in più su di loro e sulla loro storia, rimanendo colpita da un utente in particolare. Ciò che ha maggiormente destato la mia curiosità è stata la sua storia. Questo paziente, che chiameremo R., soffre di una grave schizofrenia, esordita all’età di 27 anni dopo una laurea in giurisprudenza, tale patologia lo ha costretto ad un’esistenza apparentemente al di fuori della realtà: giorno dopo giorno continua a chiedermi ininterrottamente se siamo vivi o se è morto qualcuno, iniziando poi a parlare improvvisamente del cielo, del paradiso e della morte. Ricordo ancora il nostro primo incontro: era il mio primo giorno di tirocinio, mi stavo presentando a tutti, quando R. esce dalla sua stanza e, porgendomi il telefono, dice che sua madre aveva “chiamato dal paradiso” e che “voleva parlare con me”. Questa sua condizione e il fatto che fossi conscia che fino all’età adulta R. era stato una persona sana riuscita a conseguire persino una laurea con ottimi voti, da un lato mi rattristava molto, dall’altro non faceva che aumentare la mia curiosità su questo caso e faceva sorgere in me diverse domande: c’è un senso dietro la “morte” e la “vita” che lui nomina? E soprattutto un paziente che fa parte delle cosiddette nuove cronicità può davvero essere “riportato sulla terra” come diceva il suo terapeuta? O è destinato a rimanere per tutta la vita come fluttuante in un limbo? È partecipando al gruppo e osservando il suo modo di funzionare in quel contesto che sono rimasta sempre più colpita da questo caso e, rifacendomi a quanto precedentemente studiato e a quanto conosciuto solo sul campo, ho provato a dare una risposta a questi quesiti.
Innanzitutto, è importante specificare che la terapia di gruppo che ho visto utilizzare è la cosiddetta “gruppoanalisi dell’esserci” (Di Petta G. 2013), a orientamento fenomenologico, che si focalizza sul vissuto dei partecipanti e sulla valorizzazione della loro esperienza emotiva. Elemento di base di questa terapia, oltre che della psicopatologia fenomenologica in generale, è il vissuto in quanto pathos, ovvero l’idea che l’uomo si trovi nel mondo in quanto emotivamente situato e dunque dotato di emozioni. Secondo quest’ottica, l’unico modo per esserci, per essere “vivi” e conoscersi è dunque quello di sentirsi, entrare in contatto con le proprie emozioni e risuonare con quelle degli altri. A tal fine il conduttore del gruppo chiede continuamente ai partecipanti, come in una sorta di mantra costantemente ripetuto, di esprimere come si sentono e cosa provano rispetto a ciò che sta accadendo in quel momento. Questo primo passo fenomenologico ha già un’importante funzione terapeutica soprattutto nel caso di pazienti psicotici. Questi ultimi, infatti, attraverso la consapevolezza dei vissuti corporei e sensoriali, entrano in contatto con angoscie profonde, ma possono in questo modo riconnettersi al proprio esserci nel mondo, spesso compromesso dalla riorganizzazione delirante del proprio ambiente circostante. Il costante ripetere di R. “sono morto” o “sono in paradiso” riflette infatti proprio il senso di catastrofe che porta dentro di sé. Utilizza queste espressioni in seguito a un evento al quale non è in grado di dare una spiegazione, finendo per far risultare il suo eloquio illogico e incoerente per chi lo ascolta. La dimensione delle emozioni è strettamente legata a quella del corpo, che nel caso di pazienti psicotici risulta frammentato, privo di confini, diviso in tante parti slegate tra di loro che si muovono quindi in modo non integrato e armonico. Venendo meno le sensazioni dei confini e dei limiti corporei la persona psicotica si sente dispersa nell’ambiente senza sapere dove si trova e verso dove è diretta. Esercitarsi in gruppo per entrare in contatto con le proprie emozioni permette un maggior ancoraggio al senso comune e all’alterità, migliorando la consapevolezza di sé, verso dove si è orientati. Particolarmente importante risulta anche il ruolo del terapeuta, che partecipando anch’egli attivamente al gruppo e portando la forza vitale dei propri vissuti emotivi, funge da compensazione della soggettività smarrita del paziente, aiutandola a ricomporsi.
Tornando al caso di R. e al suo funzionamento in gruppo, ciò che mi ha colpito fin dalle prime sedute è stato il suo modo di aprirsi su tematiche per lui angoscianti con interventi significativi e coerenti con il discorso del gruppo. Questo risultato per lui straordinario va rimandato, non solo all’utilizzo della tecnica di cui sopra, ma anche al gruppo in quanto tale e alle funzioni terapeutiche, che nel tempo si costituiscono per il paziente come una “madre sufficientemente buona” (Winnicott, 1996).
L’angoscia verbalizzata in gruppo viene infatti accolta dal terapeuta, così come una madre sensibile accoglie i dati sensoriali grezzi del neonato vissuti come angoscianti. Il vissuto del singolo diventa allora vissuto del gruppo e il soggetto passa dall’esserci individualizzato all’“esserci con l’altro” (Di Petta G. 2013) e il gruppo appare come un “contenitore” (Neri C. 2021) delle angosce dei suoi membri, uno spazio dotato di propri confini che si offre ai loro pensieri svolgendo una funzione di delimitazione. Queste angosce vengono poi metabolizzate dal gruppo tramite una funzione paragonabile alla funzione alfa materna descritta da Bion e trasformate da meri dati sensoriali grezzi e angoscianti in elementi dotati di significato e per questo sopportabili e assimilabili dalla mente di chi li ha fatti circolare in gruppo (Fiore et al. 2015).
Ho potuto osservare come R. pur continuando ad utilizzare continuamente termini che richiamavano la vita e la morte, non sembrava più che dicesse cose dette senza un perché, ma il suo linguaggio assumeva una funzione metaforica: è così che il parlare della morte in gruppo poteva voler significare l’assenza di qualcuno, mentre la vita e i termini ad essa ricollegabili, simboleggiavano il cogliere la vicinanza del gruppo e la cura che lui sentiva di avere dai suoi membri. Questo suo modo di funzionare in maniera coerente e significativa in presenza degli altri, come si può evincere dal discorso fatto fino ad ora, è possibile grazie alle funzioni di contenimento svolte dal gruppo tramite le quali le angosce dei suoi membri vengono contenute, assunte come proprie dal gruppo e trasformate in elementi di pensiero introiettabili da chi le ha condivise.
Concludo allora dando una possibile risposta alle domande che mi sono posta all’inizio del mio tirocinio, dicendo che quelli che sembravano interventi senza senso di R. lo sembravano perché intrisi di caos e non contenuti in uno spazio corporeo e mentale capace di tollerarli e di dotarli di senso, cosa che invece fa il gruppo. L’utilizzo del gruppo è allora, secondo la mia esperienza, davvero indispensabile ai fini terapeutici per pazienti schizofrenici con una tale gravità e cronicità, perché grazie al suo supporto, pur non potendo sperare in una loro completa guarigione, si può ridurre l’angoscia da loro percepita riportandoli a un graduale e tollerabile contatto con la realtà.
Bibliografia
Fiore et al (2015), Psicoanalisi di gruppo in setting istituzionali. Esperienze cliniche: nevrosi psicosi e disagio dell’adolescenza, Armando Editore, Roma
Neri C. (2021) Gruppo, Raffaello Cortina Editore, Milano
Di Petta G. (2013) Gruppoanalisi dell’esserci. Tossicomania e terapia delle emozioni condivise, Franco Angeli, Milano
Winnicott D.W. (1996) I bambini e le loro madri, Raffaello Cortina Editore, Milano