Lettere dai MaestriPsicoterapia fenomenologicaSalute mentale

Metamorfosi evolutive, metamorfosi di pensiero

Thinking outside the box si dice in inglese, pensare fuori dagli schemi. Ecco, Pontalti è uno che pensa fuori dagli schemi, mi sono detto ascoltando la sua intervista su Psicologia Fenomenologica, ad introduzione del convegno sulle metamorfosi evolutive del 2 Marzo a Firenze. Immagino che una reazione simile abbia avuto Gilberto Di Petta, che pochi giorni dopo la registrazione dell’intervista deve avere sentito l’urgenza di pubblicare quasi a caldo le sue impressioni. A queste mi voglio agganciare, per alimentare un dibattito su alcuni dei temi sollevati, che necessita di maggiore visibilità e rilancio nella comunità psy. Questa necessità deriva dall’andare contro o oltre i suddetti schemi cui la frenetica quotidianità operativa ci costringe, schemi che forse non sono altro che automatismi collettivi che seguono le tendenze dell’epoca e a loro volta le rinforzano, senza fermarsi a mentalizzarne i presupposti e le implicazioni implicite.

Come messo a fuoco da Pontalti, una delle tendenze più pervasive del momento è il concetto di trauma come origine o fattore di rischio del disagio psichico. Questo punto non è in dubbio, da qualsiasi orientamento si affronti il tema, quello che va invece tematizzato e discusso è la diffusione di una lettura traumatologica del disagio psichico, testimoniata come dice bene Pontalti dalla sproporzione del tema del trattamento del trauma nell’offerta formativa di ecm che intasa quotidianamente la posta elettronica di ogni operatore psy, e che rischia di sottovalutare quanto la natura traumatica di un’esperienza poggi su un vissuto soggettivo di esperienze avverse, a cui individui diversi rispondono psicologicamente in modo diverso. La società occidentale contemporanea è forse nella sua epoca meno violenta e conflittuale rispetto a quelle precedenti, dal livello sociale a quello familiare, caratterizzato dal passaggio dalla famiglia normativa alla famiglia affettiva. Certamente la crisi economica e climatica così come le guerre attuali e così vicine destabilizzano l’immaginario collettivo di chi si aspettava e preconizzava la fine della storia e minano la proiezione nel futuro dei giovani, ma questo non ha una ricaduta sui vissuti individuali in chiave traumatica, da considerare solo di fronte alla percepita incolumità dell’individuo. Quindi dove sta il possibile trauma? Sta, o meglio, dovrebbe stare per lo più nelle relazioni interpersonali, ma occorre quindi chiedersi se ci sia sempre stato con questa prevalenza e nessuno fosse stato in grado di coglierlo nella sua diffusività, o al contrario è come se si sia progressivamente alzata la sensibilità individuale e sociale, o di converso abbassata la soglia di tolleranza, portando all’ipotesi di un vissuto traumatico a partire da esperienze avverse che prima erano più facilmente integrabili nelle biografie delle persone, come ben esemplificato dal sistematico e acritico uso del termine bullismo per ogni conflitto tra giovani pari, a cui loro stessi sono portati ad aderire. Oppure richiamarsi al trauma e alle possibilità terapeutiche definite evidence-based di trattarlo flirta inconsapevolmente con l’identità professionale ontologicamente debole degli operatori psy posti di fronte alla complessità clinica di molti casi che affollano sempre più i luoghi della salute mentale? Non ho risposte, ma forse non è neanche così importante averle, forse l’importante è continuare a farsi domande anche provocatorie o controtendenza sulle singole individualità che ogni giorno si incontrano in ambulatorio, ma che nel loro insieme riflettono i cambiamenti sociali in cui loro come noi siamo immersi e fatichiamo a descrivere e concettualizzare.

Passo poi al secondo punto sollevato da Pontalti e ripreso da Di Petta, cioè la pervasività epidemiologica del concetto di disturbi del neurosviluppo, riconducibile al vizio di origine della sua introduzione nel DSM a partire dalla versione 5. Anche qui è paradossale che la comunità psy si richiami sempre più ad un alterato neurosviluppo per qualsiasi manifestazione ad esordio in età evolutiva, a fronte della lunga ricerca, per ora fallimentare, del Sacro Graal della psichiatria moderna, cioè biomarcatori a livello individuale dei disturbi mentali. Nella divulgazione scientifica e giornalistica, così come nella comunicazione col paziente e coi suoi genitori, questa prospettiva rischia fortemente di passare un messaggio biologizzante deterministico, che omette il ruolo fondamentale dei fattori ambientali nell’attenuare o amplificare gli effetti della predisposizione neurobiologica, che è sì condizione necessaria ma assolutamente non sufficiente affinché nel fenotipo emergano segni e sintomi che buchino la soglia clinica. È vero che più la manifestazione clinica è severa, precoce e resistente al trattamento più l’impronta biologica è rilevante e rilevabile, ma anche nei disturbi mentali maggiori quali schizofrenia o disturbo bipolare, la genetica non spiega tutto ed è necessario che a questa si sommino interagendo condizioni o eventi ambientali sfavorevoli, diversi in base alla tipologia di disturbo. Se questo è vero nei disturbi mentali più gravi, figurarsi in casi come i disturbi specifici di apprendimento, ormai con prevalenze pandemiche negli ambulatori come nelle scuole. Il rischio è quindi di approcciarsi inconsapevolmente in modo biologico-deterministico a condizioni in cui i fattori ambientali sono invece preponderanti o rispetto ai quali la soglia clinica è arbitraria e culturalmente influenzata: per esempio i veri bambini dislessici, cioè quelli che non accedono alla lettura intesa come transcodifica stabilizzata e automatizzata tra segni e suoni, sono una minima parte di quelli a cui viene affibbiata la diagnosi di un disturbo del neurosviluppo quale la dislessia (in lingua italiana perlopiù corretti ma lenti), ma nella distribuzione normale dell’abilità di lettura (o scrittura o matematica) la scelta di dove finisca la normalità e inizi la patologia deriva da un consenso tra clinici, non è un fatto di natura. Stesso ragionamento si potrebbe fare per l’autismo, in cui in pochi decenni la diagnosi da rarità è diventata così prevalente (dati 2023: 1 su 36 bambini negli Stati Uniti, 1 su 77 bambini in Italia): pur considerando l’allargamento diagnostico previsto con l’introduzione del concetto di spettro autistico, come è possibile ricorrere ad una spiegazione prettamente biologica per un disturbo dalla crescita così esponenziale? O l’ambiente in cui siamo esposti è molto più dannoso a livello biologico di quanto ci si aspetti o ci venga raccontato, o al contrario diamo l’etichetta di autismo a ciò che prima riceveva altre etichette o non ne riceveva affatto, raccontandoci che siamo più bravi a identificarlo. Segnalando l’abuso del termine neurosviluppo (e vedremo cosa accadrà al più recente neurodivergenza) da parte di chi questo neurosviluppo non sa ad oggi come caratterizzarlo nella sua supposta atipicità e causalità ma al massimo descriverne gli ipotetici ed atipici correlati cognitivi e comportamentali, occorre non cadere nel rischio opposto di scartare a priori ogni lettura evolutiva di molti quadri clinici, da quelli che si manifestano in età evolutiva a soprattutto quelli che in età evolutiva vedono determinarsi quella vulnerabilità premorbosa e prodromica che potrà manifestarsi con forme cliniche nella giovane età adulta in caso di condizioni ambientali sfavorevoli, pena concepire gli esordi psicopatologici di questa fascia di età come derivati da una vulnerabilità di cui si ignora ogni matrice ontogenetica.

Quindi le nostre chiavi interpretative dovrebbero poggiare molto di più su una umile (cioè conscia dei suoi limiti) lettura evolutiva in cui fattori biologicamente predisponenti si incrociano nel tempo con complesse e mutevoli dinamiche ambientali, a determinare esiti interpretati anche attraverso arbitrarie convenzioni scientifico culturali, che non su una rassicurante ma falsificante, riduzionistica e deterministica lettura di un alterato neurosviluppo, almeno fintanto che questo processo non sarà mappato nel dettaglio per ogni singolo supposto disturbo e ne venga dimostrato il ruolo causale e non correlazionale con segni e sintomi clinici.

Nella speranza che le idee del tutto individuali qui esposte allarghino lo spazio di dibattito aperto da Pontalti e colto da Di Petta nella sua controcorrente portata, ringrazio la redazione di Psicologia Fenomenologica per la possibilità di diffonderle.

Michele Poletti

Michele Poletti

Psicologo psicoterapeuta, specializzato in neuropsicologia dello sviluppo, dirigente psicologo presso Unità di Neuropsichiatria dell’Infanzia e Adolescenza dell’Azienda USL-IRCCS di Reggio Emilia. È co-autore di pubblicazioni nel campo della psicopatologia dell’adulto e dell’età evolutiva.

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