*articolo scritto in collaborazione con:
Delia Lenzi, neurologa psicoterapeuta, Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale Roma, Associazione Millemè violenza di genere.
Anna Maria Capodanno, psicologa psicoterapeuta, Team DBT Napoli/Salerno, Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale di Napoli.
Andrea Pasetto, psicologo psicoterapeuta, Spazio uomini N.A.V. Comune di Verona.
Marco Pagliaro, avvocato penalista, Foro di Santa Maria Capua Vetere, Associazione Millemè violenza di genere.
Raffaele Popolo, psichiatra psicoterapeuta, Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale Roma.
Giancarlo Dimaggio, psichiatra psicoterapeuta, Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale Roma.
La violenza di genere è un problema serio ed urgente e per questo va affrontato con interventi efficaci su più fronti. Ce lo dicono i numeri:1 donna su 3 a livello mondiale subisce abusi di natura fisica e/o sessuale e, nella maggior parte dei casi, gli offenders sono partners o ex-partners (UO Woman, 2020). Inoltre, una delle conseguenze del Covid 19 è stato un aumento a livello mondiale dei casi di violenza intrafamiliare (Evans et al., 2021). La restrizione alla mobilità, le chiusure imposte dalla pandemia, lo stress su individui e famiglie legate alla perdita del lavoro, alla chiusura delle scuole con conseguenti ricadute sulle famiglie della gestione dei figli, ha aumentato il rischio di conflitti interpersonali. L’OMS sottolinea come la previsione di misure preventive, sanzioni legali e servizi che si occupano del trattamento sia delle vittime che degli offenders varia in modo significativo tra le diverse nazioni e in alcuni paesi risulta inadeguata o addirittura inesistente (WHO, 2014).
E nel nostro paese le cose come stanno? Non bene a quanto ci dicono le statistiche. Il 31,5% delle donne tra i 60 e i 70 anni (6 milioni 788 mila) ha subito nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale e l’1,6% (2 milioni 800 mila donne) la subisce da partners attuali o da ex (ISTAT, 2018).
Com’è la situazione dal punto di vista legislativo? Almeno sulla carta sarebbero stati fatti passi avanti: l’intervento del nostro legislatore in materia di tutela delle vittime di violenza di “genere”, soprattutto in ambito penale, si è caratterizzato negli ultimi anni dall’introduzione nel codice sostanziale di nuove fattispecie di reato e di un generale inasprimento delle sanzioni in relazione a reati già tipizzati:il D.lgs 11/2009 ha introdotto per la prima volta nel nostro codice penale l’articolo 612-bis relativo al reato di stalking; il D.lgs 69/2019, il cosiddetto Codice Rosso, introdotto con l’intenzione di inasprire le sanzioni per gli autori di violenza domestica e di altri reati simili (come il revengeporn) e di velocizzare e rendere più efficaci le misure cautelari e preventive per la messa in sicurezza delle vittime (ad esempio le procedure di controllo come il braccialetto elettronico, per chi viola provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e di divieto di avvicinamento alla parte offesa).
La legge 119/2013, recependo le linee guida della Convenzione di Istanbul, prevede, anche attraverso lo stanziamento di finanziamenti ad hoc percorsi di recupero per gli offenders, che, anche se in ritardo rispetto agli Stati Uniti e ad altri paesi europei, hanno cominciato ad attivarsi gradualmente anche in Italia a partire dal 2009.
Quello che ci chiediamo, dati alla mano è: la legge sta funzionando nella sua capacità di mettere in sicurezza le vittime di violenza di genere? È possibile fare qualcosa di più per prevenire tali reati?
Rispetto alla prima domanda, la risposta sembra negativa. I dati ISTAT indicano che dal 2004 al 2019 la percentuale di donne uccise dal partner o ex-partner sul totale delle donne uccise nell’anno di riferimento è cresciuto dal 38,7% al 61,3% (su 111 donne uccise nel 2019). Per essere ancora più chiari, su 111 donne morte per omicidio nel 2019, 68 sono state uccise dal partner attuale e dall’ex partner. Inoltre i dati del Ministero dell’Interno aggiornati al 2020, dopo 1 anno di Codice Rosso, mostrano che il 79,07% sul totale delle 1741 denunce di violazione dell’Art. 387 bis C.P., “Violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa”, è stata fatta da vittime di sesso femminile. Ma c’è dell’altro: nel triennio 2017-2019 le donne che hanno avuto almeno un accesso in Pronto Soccorso con l’indicazione di diagnosi di violenza sono 16.140 per un numero totale di accessi in Pronto Soccorso per violenza nell’arco del triennio pari a 19.166 (1,2 accessi procapite). Questo vuol dire che le stesse donne hanno effettuato anche altri accessi in Pronto Soccorso con diagnosi diverse da quelle riferibili a violenza. Complessivamente, il numero procapite di accessi per queste donne, a prescindere dalla diagnosi, è superiore a 5 e nella classe di età 18-44 anni è superiore a 6. Questo significa che una donna che ha subito violenza, nell’arco del triennio, torna in media 5/6 volte al Pronto Soccorso. Il 90% circa degli accessi di donne con diagnosi di violenza esita a domicilio, dove molto probabilmente vive con l’offender (ISTAT, 2020).
Troppo spesso accade che il maltrattante o lo stalker perseveri nei comportamenti violenti, nonostante i provvedimenti interdittivi a suo carico. Ne sono un esempio casi drammatici di cronaca dove ad essere uccise sono donne che, pur trovando il coraggio di denunciare, cosa per niente semplice, non sono state protette. Si pensi al caso di Vanessa Zappalà, 26 anni, uccisa il 22 agosto mentre passeggia con le amiche sul lungomare di Acitrezza, dall’ex fidanzato, Antonino Sciuto, morto suicida poco aver commesso l’omicidio.Come raccontano le cronache dei giornali, quella di Vanessa era una morte annunciata: era stato denunciato dalla ex compagna per stalking, il 7 giugno passa una notte in caserma e un’altra di interrogatorio, a cui seguono gli arresti domiciliari. Il 13 giugno però è sotto casa della vittima perché il provvedimento cambia e ha solo l’obbligo di non avvicinarsi nel raggio di 200 metri. L’esito di questa falla nel sistema “giustizia” lo conosciamo purtroppo molto bene.
I dati sono impietosi: le leggi non sembra stiano funzionando.
È quindi indispensabile fare qualcosa di meglio per prevedere e prevenire il fenomeno. La domanda è: cosa? Dal punto di vista di chi scrive, il problema ha a che fare con la concreta possibilità che le funzioni preventive e rieducative della pena abbiano effettiva applicazione. Nella maggior parte dei casi, la pena non è più commisurata né alla possibilità di rieducazione, né alla reale possibilità che il soggetto non delinqua nuovamente. L’effetto deterrente connaturato ad una pena elevata, dati alla mano, non sempre si traduce in apprezzabili risultati sul piano concreto.
E così,da una parte sembra necessario rafforzare i controlli da parte delle autorità giudiziarie sugli autori di reato e per garantire maggiore protezione alle vittime, dall’altra occorrerebbeagire sul piano “educativo”, in chiave di prevenzione, e sul piano “rieducativo” degli “offenders” in modo che la pena (che necessita di essere eseguita in concreto) possa contribuire al loro eventuale reinserimento sociale, laddove possibile.
Torniamo quindi alla domanda che ci siamo posti: cosa possiamo fare affinché la legge funzioni? Dobbiamo cambiarla o dobbiamo applicarla meglio?
1) Per prima cosa occorre investire nella formazione continua delle forze dell’ordine sul tema della violenza di genere e sulla normativa vigente che deve essere fornita e fruita obbligatoriamente e soprattutto occorre formarli alla rilevazione delle situazioni ad alto rischio per poter differenziare le procedure di prevenzione ed eventuale contenimento dell’aggressore.
2) Deve essere realizzata una rete efficiente di coordinamento tra le varie istituzioni che si occupano di sicurezza e violenza domestica come questura, forze dell’ordine, pronto soccorso, centri antiviolenza, servizi sociali e servizi per gli autori di violenza; questo permetterebbe di rilevare più facilmente le situazioni ad alto rischio e prevenire altri femminicidi.
3) Devono essere migliorate o sostituite le forme di contenimento e prevenzione di futuri atti violenti: questo potrebbe essere facilmente ottenuto rendendo più operativa e sistematica la misura dell’allontanamento tramite l’utilizzo del braccialetto elettronico. Attualmente purtroppo l’utilizzo del braccialetto elettronico non viene applicato nonostante sia previsto dalla legge. Con la legge 19 Luglio 2019, n. 69 del “Codice Rosso” è stata prevista la possibilità di impiegare anche mezzi elettronici come il braccialetto elettronico per rendere ancora più efficace la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. In una percentuale significativa di offenders la tutela della vittima attraverso la sola misura del divieto di avvicinamento è efficace, ma nei casi ad alto rischio (vedi punto 1 sulla formazione) non lo è e diventa necessaria una forma più incisiva di controllo. Attualmente il dispositivo elettronico serve a monitorare gli spostamenti del maltrattante all’interno dei luoghi frequentati dalla vittima e a far scattare l’allarme nel momento in cui l’aggressore entra nella zona definita. Quello che sembra più efficace è dotare non solo gli offenders ma anche le vittime di braccialetto elettronico, come avviene già in Spagna e in altri paesi europei, in modo da ottenere un tracciamento di prossimità, indipendentemente dal luogo, ed equipaggiarlo in modo da allertare sia la vittima che un operatore in tempo reale nel momento in cui l’offender elude il divieto. Un altro punto importante è la distanza che l’offender deve tenere dalla vittima, in merito alla quale decide il giudice nell’emissione del decreto di misura cautelare, ma che dovrebbe essere non meno di 1 km.
4) Devono essere stanziati più fondi a copertura dell’esecuzione reale della misura cautelare (ad esempio nei casi in cui l’offender abiti vicino alla casa della vittima e non possa permettersi da un punto di vista economico un trasferimento che ne assicuri il mantenimento della distanza imposta dalla legge) comprese le spese per la parte tecnologica (braccialetto elettronico).
5) Deve essere costituito un sistema di monitoraggio costante post-promulgazione di nuove leggi per verificarne costantemente l’efficacia e per introdurre correttivi laddove sia necessario.
In termini di prevenzione ci sarebbero due aspetti importanti da trattare, ma esulano dal fine trattato in questo scritto: l’educazione sentimentale nelle scuole che dovrebbe essere obbligatoria, e il trattamento di quelle vittime che, per motivi psicologici, non riescono ad interrompere in tempo (o ad evitare) la relazione con l’offender.
Per quanto riguarda l’approccio verso chi perpetra violenza domestica, ovvero i cosiddetti domestic offenders, è necessario comprendere prima di tutto quali offender potrebbero beneficiare maggiormente di programmi terapeutici e quali programmi di trattamento utilizzare.
La capacità di prevenire, prevedere e curare il comportamento violento rappresenta una sfida e una grande responsabilità, date le conseguenze che può avere sulla comunità. Per prima cosa è necessario distinguere tra due tipi di comportamento aggressivo, perché come psicoterapeuti è possibile intervenire con qualche possibilità di efficacia solo su quello impulsivo, reattivo, basato sulla perdita di controllo sulle proprie emozioni (Velotti et al., 2016). L’aggressività predatoria, fredda, premeditata è, al contrario, caratteristica di un profilo personologico che rientra nell’ambito della psicopatia e antisocialità (assenza di rimorso, non curanza per il dolore altrui, ecc), aspetto sul quale, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, solo un intervento efficace della giustizia può fare qualcosa.
Nel momento in cui si identifica la popolazione di offenders che potrebbe beneficiare di un trattamento psicoterapeutico, è necessario adottare protocolli di intervento efficaci. Qual è lo stato dell’arte in questo campo? I primi programmi nati con l’intento di ridurre il rischio di recidiva degli autori di violenza di genere risalgono alla metà degli anni ‘70 negli Stati Uniti, primi tra tutti, il Duluth Program, intervento psico-educativo che vede la violenza come la conseguenza di una visione patriarcale e ha l’obiettivo di modificare stereotipi e credenze di genere. L’ideologia femminista ha influenzato e continua ad influenzare i modelli di trattamento proposti alle vittime e agli offenders e la relativa ricerca sull’efficacia degli stessi (Eckhardt et al., 2013; Wagers&Pate, 2019). Secondo tale ideologia le radici della violenza di genere sono da rintracciare unicamente nell’ atteggiamento patriarcale e sessista, legittimato dalla società, che porta l’uomo a un bisogno di dominio e controllo sulla donna e non viene attribuito nessun ruolo causale alla patologia individuale (Bates et al., 2017). Programmi di questo tipo, basati su un approccio prevalentemente psico-educazionale piuttosto che psicoterapico, si focalizzano sulle dinamiche del potere e controllo nelle relazioni di genere e vengono portati avanti in format di gruppo. Tuttavia, secondo dati scientifici recenti, gli interventi di questo tipo si sono dimostrati inefficaci nel ridurre i tassi di recidiva (Eckhardt et al., 2013; Yakeley, 2021), con alti tassi di abbandono (Carney et al., 2006). Queste evidenze scientifiche devono spingere la ricerca a sviluppare nuovi modelli e protocolli clinici, che andranno validati scientificamente. Una delle critiche che viene fatta al Duluth Model e ai modelli simili è che ignorano del tutto altri fattori importanti che contribuiscono al manifestarsi del comportamento violento, come quelli biologici, sociali e legati alla storia di sviluppo del maltrattante (Bates et al., 2021).
In Italia ci sono 54 programmi attivi per il recupero degli offenders, con grandi disparità di distribuzione da regione a regione. La maggior parte di essi offre un servizio gratuito di ascolto telefonico e consulenza psicologica. La psicoterapia, più frequentemente di orientamento cognitivo-comportamentale, è offerta in circa la metà dei casi, percentuale che sale al 65,4% se si considerano i servizi offerti a pagamento (ISTAT, 2017).
È quindi necessario, nel contesto di un approccio scientifico al trattamento, includere un monitoraggio costante sulla loro efficacia in termini sia di riduzione delle recidive che di miglioramento dello stato psicologico delle persone trattate.
BIBLIOGRAFIA
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