Il termine deriva dal greco κλινικός (che si fa presso il letto) derivato di κλίνη, ossia letto o, in generale, qualsiasi spazio dove potersi distendere, e di κλίνω, ossia coricarsi, stendersi e mettersi a letto – rimandando quindi alla posizione passiva del paziente allettato dalla malattia – ma anche inclinarsi, piegarsi, volgersi verso – indicando contemporaneamente la funzione del medico nel suo prendersi cura, nel tendere verso il malato. Radicando quindi la «clinica» al suo antico senso si arriva a comprendere come in principio il termine indicasse contemporaneamente sia il dove – il letto – sia il come – coricarsi e inclinarsi – della relazione di cura. Clinico possiede una stretta connessione storico-etimologica con la professione medica, successivamente ripreso anche dalla psicologia per rivendicare un proprio spazio professionale, propriamente clinico, distinto dalla psicologia strettamente scientifica: questo differente – e spesso acritico – riuso del termine ha creato una serie di contraddizioni, tutt’ora presenti, su cui si evita – volutamente o meno – di riflettere. Medicina clinica e psicologia clinica sono la stessa «clinica»? Cosa intende dire uno psicologo quando si definisce psicologo clinico? Di quale «clinica» stiamo parlando? Nel corso del tempo ci sono state infatti diverse concezioni della «clinica» – sorrette da diverse concezioni del reale, dell’uomo, della cura e contemporaneamente condizionate dalle scoperte scientifiche e dall’innovazione tecnologica, dello strumento tecnico: questo ha comportato una serie di trasformazioni, distorsioni, soprattutto relativamente all’inclinarsi del professionista della salute (medico o qualsiasi altro) nel rapporto con la persona sofferente. La stessa concezione delle scienze cliniche della salute risente tutt’ora di queste distorsioni dell’antica κλίνη: sono scienze cliniche primariamente umane, dell’uomo per l’uomo, tese verso quest’ultimo?
Antecedente alla medicina moderna che ritroviamo tutt’ora avvolta nei tecnicismi e nelle innumerevoli spersonalizzate specializzazioni, esisteva una medicina propriamente clinica che trovava un proprio senso professionale e costruiva la propria concezione identitaria attorno alla relazione del medico con il paziente: “una relazione che, visti gli strumenti e le conoscenze della medicina antica, doveva necessariamente essere personalizzata, prolungata nel tempo, attenta e intima. Tutta la storia di vita di una persona, e l’ambiente in cui si era svolta, lo stesso stile di vita e il contesto familiare dovevano essere conosciuti, perché il medico di allora potesse avere qualche indizio per poter in qualche modo curare il paziente” (Imbasciati, A., 2008: p. 135). I limiti conoscitivi e curativi di questa medicina costruita sulle concezioni olistico-umorali di tradizione ippocratica, spesso impotente davanti alla malattia, consentivano contemporaneamente una comprensione della storia della persona malata, un ascolto reale e attento della sua sofferenza da parte del medico.
Tra il 1600 e il 1800 questa clinica inizia a definirsi, a realizzarsi in quanto metodo: inizialmente il medico si dedicava soprattutto alla minuziosa descrizione qualitativa della malattia – da cui derivavano complesse costruzioni nosografiche – basata sull’accurata osservazione di sintomi e segni e delle trasformazioni subite nel tempo dal corpo del malato. Si attraversano quindi – secondo la ricostruzione di G. Cosmacini (2016) – una preclinica medicina dei sintomi – basata su un paradigma sintomatologico, sull’osservazione di dati spontanei, derivati dalla diretta osservazione del malato o da questo riferiti in quanto esperienze soggettive; una protoclinica medicina dei segni – basata su un paradigma semeiotico, sull’osservazione di dati provocati, rilevati attraverso un esame attivo del malato; una medicina anatomo-clinica – basata su un paradigma anatomo-patologico, sul rilievo di lesioni anatomiche in qualche modo connesse (come causa o come effetto) a segni e sintomi precedentemente osservati.
Proprio nel 1761 – con il De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis di G. B. Morgagni (1682-1771) – all’osservazione del malato si affianca l’osservazione del cadavere, del corpo morto, anatomico. Dalla superficie sintomatica si passa alle possibili cause sottostanti, invisibili se non nel confronto sistematico tra il caso clinico e le lesioni riscontrate successivamente nell’analisi anatomopatologica: segni e sintomi si ritrovano in corrispondenza di una qualche specifica lesione anatomica localizzata in uno specifico organo, connessa alla malattia in un ancora indefinito rapporto di causa o effetto. Il limite del metodo anatomo-clinico era quello di dover necessariamente attendere la morte del malato per poter comprendere a cosa corrispondessero segni e sintomi osservati. La sola relazione d’interesse – o la relazione decisiva, quella capace di svelare la lesione e spiegare sintomi e segni – era quindi la relazione con un corpo morto.
Quasi in contemporanea era stata introdotta una strumentazione tecnica attraverso cui poter esaminare “oggettivamente”[1] il malato, provocando il presentarsi di informazioni clinicamente rilevanti, attraverso un esame attivo, da confrontare con quelle ottenute tramite la narrazione soggettiva del paziente e l’analisi anatomo-patologica. Si pensi alla percussione toracica inventata dal medico austriaco L. Auenbrugger (1722-1809) alla fine del 1700 o all’auscultazione mediata dallo stetoscopio da parte di R.T.H. Laennec, nel 1817. E proprio lo stetoscopio, primo strumento diagnostico d’uso generale, trasformando la clinica trasformava contemporaneamente il rapporto medico/paziente. Scrive G. Cosmacini (2016): “La consuetudine di raccogliere accuratamente l’anamnesi, di ascoltare dal paziente il racconto del suo vissuto, incomincia a cedere il campo a un diverso modo di ascolto, all’auscultazione. La nuova tecnica di rilevamento dei segni somatici di malattia permette al medico di prescindere dalla soggettività dei sintomi riferiti dal paziente e di affidarsi alla oggettività dei segni rilevati dal suo orecchio nel corso dell’«esame» detto appunto «obiettivo». L’epoca del rapporto umano interpersonale, fatto di coinvolgimento reciproco, rischia di trapassare nell’epoca in cui l’antropologia medica del malato cede gradatamente il passo alla tecnologia medica della sua malattia”. Si tratta anche qui, per certi versi, di una relazione con un corpo morto, non cadavere ma corpo devitalizzato, cadaverizzato.
La medicina clinica poteva ora diagnosticare scientificamente: doveva tuttavia trovare il modo di connettere queste alterazioni anatomiche con tutti i sintomi e segni precedentemente rilevati a una qualche causa o a un complesso di fattori causali specifici o generali, individuabili attraverso una ricerca sperimentale o teorica, con il proposito di instaurare una terapia – essenzialmente farmacologica – anch’essa propriamente scientifica. Si era infatti arrivati a una sorta di nichilismo terapeutico (Cosmacini, G., 2016): alcuni medici si disinteressavano della terapia, considerata cosa non scientifica, e ritenevano la guarigione un fine secondario – al limite “un rischio da evitare per non sottrarre una bella diagnosi alla sua verifica autoptica!” (ivi)
La medicina deve quindi addentrarsi nel laboratorio. Intorno al 1865 il fisiologo Claude Bernard (1813-1878) introduce in medicina il metodo sperimentale, promuovendo l’idea di una médecine expérimentale, ossia una medicina intenzionata a ricercare le cause delle malattie, “attraverso un impegno teorico-sperimentale assunto quale metodo elettivo e positivo d’indagine” (Cosmacini, G., 2016). Se precedentemente l’esame clinico si basava solo sulle competenze soggettive del medico – comportando spesso una considerevole incertezza diagnostica derivata dalle differenze individuali nell’interpretazione di segni e sintomi – ora, attraverso l’introduzione di strumenti capaci di rappresentare il funzionamento degli organi in forma grafica o numerica, diviene possibile “trasformare le funzioni vitali da fenomeni controllabili in modo soggettivo in fatti oggettivi” (Corbellini, G., 2010) e ottenere quindi una trascrizione oggettiva della malattia: “L’utilizzazione di nuovi strumenti (tecnici, biochimici e radiologici) ridava speranza ai tentativi di costituzione della malattia come un universale a partire dall’osservazione dei pazienti, consentendo di sviluppare modelli sempre più articolati delle malattie” (ivi). Si poteva ora parlare propriamente di malattia, ossia di un quadro di deviazioni di parametri corporei dalla norma naturale, sufficientemente studiato in modo da essere riconoscibile in una sua precisa eziologia e patogenesi. Tutto questo – sospinto dall’inarrestabile sentire naturalistico-positivista del periodo – conduce a un incontro-scontro “tra la qualificazione clinica della malattia e la sua quantificazione in laboratorio” (Cosmacini, G., 2016) sino ad arrivare alla tendenza a “valutare il progresso delle conoscenze medico-scientifiche in base al grado in cui l’analisi di laboratorio dei fatti morbosi sostituisce, invece che integrarla, l’analisi clinica dei fatti stessi” (ivi). Oggettivismo e concretismo (Imbasciati, A., 2008)caratterizzano tutt’ora la cultura (bio)medica, risultando limitanti in quanto tendono a scordarsi di quanto tutti i dati siano me-diati dalla persona del medico e di quanto siano essenziali tanto le esperienze vissute del malato quanto l’incontro propriamente clinico.
Nonostante il medico riesca ancora precariamente a sostare tra l’essere un uomo di scienza – inserita la tecnologia nel rapporto con il malato – e l’essere un amico del malato – continuando a considerare questo un rapporto primariamente antropologico, di un uomo con un altro uomo – continuano a presentarsi situazioni che rischiano di impoverire o denaturare questa relazione, quali comportamenti antiterapeutici paternalistici, autoritari, distaccati o invadenti (Cosmacini, G., 2016). E, alla fine, la rivoluzione farmacoterapeutica del 1928 (la scoperta della penicillina da parte di Alexander Fleming e l’introduzione degli antibiotici) stronca questo rapporto precario: “il medico – scrive G. Cosmacini (2016) – che si trova ad avere nelle mani un farmaco finalmente efficace contro mali refrattari da secoli tende a vedere nel proprio malato, cui somministra quel farmaco, un organismo governato dalle leggi della biologia; non tanto, non anche, non più un individuo implicato spesso in situazioni di vita, ambientali e comportamentali, altrettanto patogene”. La farmacoterapia diventa “totalizzante, totalitaria: il farmaco tutto fa e tutto può” (ivi) e “al medico che dispone di quest’arma potente, e che ne fa uso a beneficio del malato, non è più richiesto o raccomandato di stare con il malato come un tempo, con la presenza e la parola, o «compensando la propria impotenza terapeutica con la pazienza dell’ascolto»” (ivi); al medico – inserito in un cultura prettamente individualistica – non viene ora richiesto nemmeno di contrastare la condizioni sociali e contestuali (ri)produttrici di miseria, di schierarsi per risanare non tanto e non solo la persona quanto la sua casa, la terra; e non viene richiesto neppure di interessarsi alle componenti psicologico-antropologiche della cura. Resta solo l’interesse per una prospettiva bio (-logica, -chimica e -molecolare) e quindi per le componenti organiche, chimico-fisiche delle malattie. Proprio in questo periodo il medico si rinchiude nel riduzionismo scientifico-clinico e riconduce la medicina – e il proprio essere medico – alla sola tecnica: “che la medicina come «arte della cura» – discendente dalla originaria tèchne iatrikè d’Ippocrate – sia doverosamente un fatto tecnico è fuor di dubbio; ma essa non può essere ricondotta o ridotta alla sola tecnica, al modo in cui questa è oggi comunemente intesa. Non lo può, pena una perdita d’identità e di valore. L’aver cura, esercitato da uomini a vantaggio di uomini, è prima di tutto un fatto «umano», interumano” (Cosmacini, G., 2016). Ma quest’uomo si frantuma insieme alla frantumazione del sapere nelle diverse ramificate specializzazioni; quest’uomo si riduce a pezzi, apparati, organi, funzioni. E si frantuma la stessa relazione clinica. Il progresso scientifico nella biologia, nella chimica, nelle tecnologie medico-biologiche e nella farmacologia – attraverso la sintesi di farmaci non solo sintomatici ma anche eziologicio patogenetici – ha portato a oscurare questa relazione: “innumerevoli esami di laboratorio o comunque effettuati attraverso progredite tecnologie biofisiche, permettono di effettuare un’indagine […] del paziente, rapida e precisa così da conseguire una chiara diagnosi, alla quale di solito corrisponde una precisa conoscenza dell’eziopatogenesi, e per la quale di conseguenza si ha a disposizione l’idonea terapia, farmacologia, chirurgica, fisica” (Imbasciati, A., 2008: p. 135). Tutto questo porta spesso il medico a sentirsi onnipotente, a “sentire d’esser fatto per guarire malattie piuttosto che per curare i malati” (Cosmacini, G., 2016): si pensi a proposito alla durata media dell’incontro con il proprio medico – di pochi minuti – e all’assenza di ascolto e comunicazione – “tanto più grave quanto di essi è più sentito il bisogno” (ivi) – condita da un sentire paternalistico-autoritario – mai scomparso, nemmeno dopo le incisive critiche e proteste del 1960-70 – interessato a ordinare esami di laboratorio, prescrivere farmaci e liberarsi del pericolo della contaminazione derivata dal rapporto con il malato.
Attualmente “la medicina appare propensa ad accentuare sempre più il suo carattere acquisito di prassi clinica mediata da strumenti e da macchine” (Cosmacini, G., 2016): il medico, la cui funzione dovrebbe essere quella di mediare il rapporto tra tecnica e malato, interviene aridamente e la tecnologia predomina sull’antropologia, la standardizzazione e il numero sulla poiesi caratteristica dell’incontro clinico. “La relazione interumana, interpersonale, costituisce l’anima antropologica della medicina. Essa è coessenziale alla ragione tecnologica della medicina scientifica. Ma se questa la perde per strada, sacrificandola alla propria deriva tecnicistica e tecnocratica, si trova a sostenere da sola un rapporto di cura dimezzato” (ivi): l’avanzamento scientifico-tecnologico della medicina moderna aveva quindi lentamente svuotato il termine clinico del suo antico significato e aveva portato a trascurare l’importanza della relazione in quanto terreno intersoggettivo da cui scaturiva la conoscenza e la comprensione della malattia – e del malato. “Clinico” – scrive A. Imbasciati (2008: p. 135) – ha perso in medicina l’originario senso dell’antica kline: il suo significato è mutato, in quanto si riferisce alle cure che la medicina attuale è in grado di erogare e che non necessitano di quel contesto interpersonale lungo e laborioso, intrinseco all’antica kline affinché questa potesse in qualche modo curare”: clinica, in medicina, rimanda ora solamente alla cura – ad un potere curativo derivato dalla corrispondenza tra precisione diagnostica e precisione terapeutica – e “il rapporto medico-paziente è rimasto in troppi casi quello che intercorre «tra il decisore e il succube, tra chi parla un linguaggio ignoto e chi vorrebbe e non può capire»” (Cosmacini, G., 2016).
[1] Imbasciati (2008: p. 14) scrive a proposito: “Così si fa l’anamnesi: cinque, dieci, quindici domande; basta che il paziente risponda; si fa la palpazione e quello che c’era da sentire è dato per “sentibile” e sentito. Eppure l’esame ispettivo è filtrato dalla nostra soggettività: quello che oggi si può sentire o auscultare due ore dopo può risultarci diverso; se si visita più volte lo stesso malato, facilmente si possono cogliere segni nuovi. Allora, possiamo veramente affermare che si tratti dell’“esame obiettivo” del malato? Un addome che pare un po’ teso, a un altro operatore può apparire in modo diverso. Per esempio, dopo una palpazione in cui si è sentito il bordo epatico un po’ indurito, avevamo sufficiente coscienza di come fossero le nostre dita in quel momento?”
BIBLIOGRAFIA
Corbellini, G. (2010). Metodo clinico. Enciclopedia Treccani. https://www.treccani.it/enciclopedia/metodo-clinico_%28Dizionario-di-Medicina%29/
Cosmacini, G. (2016). Storia della medicina e della sanità in Italia: dalla peste nera ai giorni nostri. Bari-Roma, Italia: Gius. Laterza & Figli Spa.
Imbasciati, A. (2008). La mente medica: che significa “umanizzazione” della medicina? Milano, Italia: Springer-Verlag Italia.