Psichiatria

Il processo di deistituzionalizzazione: dal manicomio al dipartimento di salute mentale

L’Italia, dopo il 1978, mette in moto un processo a livello nazionale di superamento delle strutture manicomiali, che scompariranno definitivamente nel 1999. Il processo di critica e contrapposizione pratica al manicomio prende il nome di “deistituzionalizzazione”; con questo termine faremo riferimento al modello teorico/ pratico di intervento che caratterizzerà la storia della psichiatria italiana in seguito alla riforma Basaglia e la conseguente Legge 180.

La deistituzionalizzazione prende il via dalla constatazione che l’oggetto della psichiatria non è la malattia ma “la sofferenza mentale all’interno dell’esistenza complessa del soggetto ed immersa nel contesto sociale” (Piccioni, 1995). Ne consegue che l’apparato istituzionale psichiatrico, da sempre centrato sulla malattia, debba essere trasformato in un altro in grado di gestire e comprendere la sofferenza del singolo, offrendogli reale supporto.

Il processo di deistituzionalizzazione si realizzò, in Italia, principalmente su due livelli: il livello manicomiale ed il livello territoriale, o di comunità.

Il primo obiettivo del processo di de istituzionalizzazione è la cura della “malattia istituzionale”. Ma cosa si intende per “malattia istituzionale”? Come sostiene Renato Piccione, psichiatra romano che lavorò sia nell’ospedale psichiatrico di Gorizia che di Trieste, “il trattamento manicomiale, se prolungato oltre un certo numero di mesi produce un comportamento patologico nel paziente” (Piccione, 1995). Da sottolineare che la malattia istituzionale è diffusa non soltanto in manicomio ma in tutte le istituzioni totali: carcere, campo di concentramento, riformatori. Tale malattia, definita anche “regressione istituzionale”, nel momento in cui si manifesta in manicomio, assume due particolarità, rispetto alle altre istituzioni totali: in primo luogo a subire la degenza è una persona più fragile, già portatrice di una sofferenza psichica; in secondo luogo, gli operatori, lo staff manicomiale, tenderanno ad attribuire le manifestazioni tipiche di questa patologia non tanto alla degenza in sé, ma al disturbo psichiatrico per la quale la persona è rinchiusa. Il lungodegente istituzionalizzato rappresenta il prodotto finito della macchina manicomiale. Ora era chiaro a tutti: il manicomio, nato, ufficialmente, per “curare”, ha mostrato di essere luogo generatore di malattia.

Il secondo livello della de istituzionalizzazione, quello territoriale, so caratterizza per un processo molto complesso che, in seguito alla 180, ha raggiunto il maggior sviluppo rispetto ad ogni altro Paese al mondo. Gli anni precedenti e successivi la legge 180, infatti, furono caratterizzati da dibattiti, esperienze circa le alternative possibili al manicomio. L’alternativa al manicomio viene individuata in un’organizzazione decentrata, in una rete flessibile di strutture extra ospedaliere, capaci di confrontarsi più direttamente con i bisogni della popolazione. Nascerà così il Dipartimento di Salute mentale (DSM). L’alternativa, dunque, viene individuata nel territorio. Alla base di questa scelta, vi è il riconoscimento dell’importanza del potenziamento della soggettività, della vita concreta e quotidiana della persona. Si inizia a lavorare in direzione di un aumento del potere del paziente, restituendogli una reale contrattualità sociale, con amici, familiari, parenti, ma anche una contrattualità di servizio, evitando di abbandonarlo a sé stesso ma senza imporgli obiettivi e programmi terapeutici precostituiti e quindi obbligatori.

Occorre che la nuova psichiatria nascente, la psichiatria alternativa, liberi il singolo e lavori nella direzione della risocializzazione, restituendo la persona sofferente al gruppo sociale perché se ne riappropri, essendo parte integrante ed essenziale della propria storia.

Tra le prime e più urgenti questioni da trattare e modificare, sicuramente spicca il tema della violenza esplicita esercitata nei manicomi, resa manifesta e pubblica dal movimento antipsichiatrico, o meglio come era solito definirlo Basaglia “non psichiatrico”. Le forme principali di violenza, rese note dal lavoro di Goffman, erano: l’isolamento, il reparto chiuso, il ricorso sistematico alla contenzione, all’elettroshock, l’abuso psicofarmacologico. Si chiede, dunque, alla psichiatria cristallizzata e immobile da decenni di cambiare bruscamente rotta, vietando il ricorso ad ogni pratica di violenza e trasformando radicalmente l’organizzazione quotidiana.

Tutte queste riflessioni e cambiamenti di rotta si concretizzarono nel lavoro di Basaglia  a Trieste e si diffusero negli anni seguenti in tutto il territorio nazionale, con tempi differenti a seconda delle politiche regionali.

La nascita del DSM viene sancita attraverso l’articolo 34 della legge 180  che prevede testualmente : “l’istituzione di servizi a struttura dipartimentale che svolgono funzioni preventive, curative e riabilitative della salute mentale”. Coerentemente al testo di legge, ogni regione italiana ha organizzato il DSM secondo un proprio modello, riconducibile, però, ad un modello concettualmente unico, costituito da nuove strutture e nuove modalità operative. Il DSM diviene il simbolo del passaggio da una psichiatria di contenimento e custodia a una psichiatria di prevenzione, cura e riabilitazione.

Ma nella pratica cos’è il DSM? Esso si presenta come un insieme di strutture e attività; è costituito da più luoghi operativi: il Centro di Salute Mentale, il servizio ospedaliero, la comunità,  ma anche luoghi non propriamente appartenenti al DSM come il domicilio del paziente. Il DSM in quanto dipartimento di salute mentale è responsabile non unicamente della patologia psichiatrica degli abitanti del territorio, ma è responsabile dell’intera salute mentale, di cui la patologia è solo una parte. Le funzioni del DSM così inteso sono principalmente due: la prevenzione, intesa come prevenzione dei disturbi mentali e promozione della Salute Mentale, e la cura, intesa come intervento sul disturbo mentale acuto e non, evitando il ricovero quando possibile e fornendo all’utenza il più ampio ventaglio possibile di risposte e la riabilitazione, intesa come intervento sul disturbo stabilizzato.

Nello specifico, le strutture costitutive del DSM, ovvero le strutture dove le funzioni sopraelencate possono svolgersi sono: il Centro di Salute mentale (CSM), il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC) e le strutture intermedie.  Approfondiamo ora i singoli elementi costitutivi.

Il CENTRO DI SALUTE MENTALE (CSM) 

Metaforicamente può essere considerato il cuore del DSM; è il suo centro propulsore ed organizzativo, che accoglie interamente le domande dell’utenza, eccezion fatta per alcuni casi urgenti. La sede del CSM è il luogo dove si svolgono i colloqui terapeutici con i pazienti e i familiari, è sede dell’equipe multidisciplinare e dove vengono pensati ed agiti gli interventi territoriali. Il CSM inoltre svolge tutte le attività preventive, quali l’educazione sanitaria, interventi sui gruppi e tutte le attività terapeutico riabilitative non basate sulla residenzialità o sul ricovero.

IL SERVIZIO PSICHIATRICO DI DIAGNOSI E CURA (SPDC)

È il famoso “repartino psichiatrico” ospedaliero che, per legge, non può avere più di 15 o 16 posti letto, per evitare l’affollamento di pazienti acuti, difficilmente gestibili e che altrimenti scivolerebbe in una condizione neomanicomiale. È una struttura adibita al ricovero. Ma soffermiamoci sul significato del ricovero. Il ricovero psichiatrico può assumere carattere terapeutico unicamente quando è volto alla gestione del paziente acuto. Il ricovero è attuato in psichiatria nel momento in cui la persona, in crisi acuta, necessita di un’assistenza continua ed intensiva; inoltre è funzionale nel momento in cui il contesto sociale, la famiglia del paziente, per l’alto livello di conflittualità e rifiuto, impedisce lo sviluppo del progetto territoriale.

Qualunque sia la motivazione del ricovero, come ci ricorda Piccione, psichiatra romano sopracitato, occorre sempre tener presente quattro aspetti fondamentali:

  • il ricovero è utile e/o necessario solo in pochissimi casi, la maggior parte dei progetti terapeutici, anche con pazienti gravi, non ne ha bisogno;
  • il ricovero non deve protrarsi troppo a lungo. Una degenza prolungata è controproducente e può peggiorare la condizione del paziente;
  • il ricovero non ha un significato in sé, non è terapeutico preso singolarmente; lo si assume come fase di un progetto terapeutico complessivo a centralità territoriale. L’intervento non deve mai esaurirsi in un ricovero;
  • procedere ad un ricovero è una decisione comunque molto difficile, da valutare con attenzione, tanto più quando l’interessato non accetta tale provvedimento, in questo caso si configura il TSO, trattamento sanitario obbligatorio.*

Qui urge una piccola postilla; doverosa, magari ripetitiva, ma doverosa.

L’art. 33 della legge 833/1978 “Trattamenti sanitari volontari e obbligatori” afferma che “gli accertamenti e trattamenti sanitari sono di norma volontari”, solo eccezionalmente obbligatori ovvero contro la volontà della persona, ed in questo ultimo caso debbono comunque rispettare la dignità e i diritti della persona secondo l’art. 32 della costituzione:

“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.

Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

Il TSO può realizzarsi solo nel momento in cui si verificano tre condizioni congiunte:

  1. le alterazioni psichiche devono essere tali da richiedere urgenti misure terapeutiche;
  2. l’interessato deve rifiutarsi di sottoporsi a cure volontarie;
  3. i servizi extra ospedalieri non possono assicurare l’intervento dovuto. L’ospedale diviene l’unica sede in grado di aiutare e sostenere la sofferenza del soggetto.

Non basta dunque che vi sia una situazione critica, un’emergenza e la famosa condizione del “ritenuto pericoloso per sé e per gli altri”, per richiedere e somministrare un TSO.

LE STRUTTURE INTERMEDIE

Situate tra l’ospedale psichiatrico e l’ambulatorio, nell’ottica della continuità e della centralità territoriale dell’intervento, le strutture intermedie sono degli spazi, anche molto diversi tra loro, organizzati per assistere, riabilitare le persone le cui esigenze non rientrano nelle competenze né del CSM né del ricovero ospedaliero. Le strutture intermedie, definite anche protette, possono essere semi residenziali come il centro diurno, o residenziali come la Comunità, la Casa Alloggio e il Gruppo Appartamento.

IL DSM OGGI

Valutando e vivendo la situazione attuale dei servizi psichiatrici, potremmo ritenerci alquanto soddisfatti dei progressi e dei buoni risultati raggiunti: ”Beh, i manicomi non ci sono più almeno!”, si sente vociferare. In questo risiede l’abilità dell’istituzione. Sicuramente il risultato raggiunto da Franco Basaglia e da tutti i suoi collaboratori (sempre poco citati ma che hanno avuto un ruolo decisivo nel processo di de istituzionalizzazione quali Antonio Slavich, Lucio Schittar, Agostino Pirella, Domenico Casagrande, Giovanni Jervis) è stato rivoluzionario e, conoscendo il destino riservato ai matti prima di allora, quasi impensabile. Ma Basaglia non auspicava unicamente la chiusura del manicomio. Era il primo passo necessario per un cambiamento più grande.

“La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, per tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere”.

(Basaglia, 2000,p.44).

La chiusura del manicomio è stato solo un piccolo passo verso la riconciliazione. Si auspicava ad un cambiamento sociale più profondo. Oggi sembra che la marcia iniziata a Gorizia si sia rallentata; in seguito alla Legge 180, l’Italia ha attraversato un profondo cambiamento socio culturale, di cui poteva andar fiera in tutto il mondo.

Oggi, a trentasette anni dalla “Legge Basaglia” le condizioni dei servizi psichiatrici sono molto lontane dalla Trieste del 1977. È come se la psichiatria si fosse arrestata, cristallizzata nuovamente, perseguendo come obiettivo non la cura ed il reinserimento della persona nel mondo, ma favorendo una sorta di eterna permanenza della persona all’interno dei servizi. Non esistono più i manicomi descritti da Goffman, non esiste più Gorizia prima dell’arrivo di Basaglia. Siamo d’accordo. lo stesso Basaglia disse a riguardo della legge 180 “ è una legge transitoria, fatta per evitare il referendum, e perciò non immune da compromessi politici. Attenzione quindi alle facili euforie. Non si deve credere di aver trovato la panacea a tutti i problemi del malato di mente con il suo inserimento negli ospedali tradizionali. La nuova legge cerca di omologare la psichiatria alla medicina, cioè il comportamento umano al corpo. Ma è come se volessimo omologare i cani alle banane”. (Basaglia, intervista alla Stampa del 12/05/1978).

È essenziale ripercorrere i passi fatti dalla psichiatria nel corso delle epoche in quanto ritengo che “una psichiatria senza memoria” sia al contempo fragile, rendendosi facilmente subordinabile e manipolabile dall’ordine economico e politico in cui è inserita, e soprattutto pericolosa in quanto rischia di commettere i medesimi errori del passato.

Le conquiste del movimento psichiatrico radicale oggi sono minate da un ritorno ad una medicalizzazione dei servizi, che comporta un allontanamento delle figure degli psicologi e degli psicoterapeuti dai servizi, incrementando in parallelo il numero di oss, medici ed infermieri.

Bibliografia

  • Basaglia F., (2005), L’Utopia della realtà, Einaudi editore, Torino.
  • Goffmann E., (2001), Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Edizioni di Comunità, Torino (1961).
  • Foucault M. (1976), Sorvegliare e Punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino.
  • Foot J. (2014), La Repubblica dei matti, Feltrinelli Editore, Milano.
  • Piccione R. (1995), Manuale di Psichiatria, Bulzoni Editore, Roma.

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