Una psicoterapia, qualunque sia l’orientamento di riferimento, reca con sé il proposito di dischiudere mondi. Il ventaglio di possibilità del paziente si è richiuso, la sua trascendenza ostacolata. Il terapeuta siede accanto al paziente accompagnandolo nella riscoperta di un ruolo generatore, della capacità di dischiudere il proprio mondo, immergendosi in esso. L’essere umano origina un mondo, lo abita, e può raccontarne la visione, a suo modo, se debitamente interrogato. La bellezza e ricchezza del mestiere di terapeuta è nell’onore di accedere al mondo dell’altro, ancor prima di accompagnarlo in esso. Ogni dialogo è una storia, ed ogni storia apre a un senso, a significati, in continua evoluzione, come esseri viventi. Il raccontarsi dell’altro è una porta d’accesso per il suo mondo. Narrazioni condivise creano sensi comuni, linguaggi d’appartenenza entro cui gli abitanti di uno stesso luogo, i professionisti di uno stesso mestiere, gli studenti di una stessa materia si riconoscono e si parlano entro regole note. Se nella stanza di terapia lo psicoterapeuta sospende il proprio mondo, per accedere a quello offerto dal paziente che si racconta, che offre il mondo del suo lì e allora, cosa accade quando il paziente esce dalla stanza, portandosi dietro il proprio mondo, rimpiazzando il suo lì e allora con il qui e ora del terapeuta? Qual è il mondo del terapeuta? È questa la domanda a cui Marco Nicastro desidera rispondere attraverso il testo Non solo di pane, una raccolta di otto brevi saggi sulla vita, l’universo e tutto quanto, che danno voce a colui che di norma siede silente, in una modalità di accoglienza e ascolto. Una conversazione, un’occasione di accedere ad una weltanschauung sfuggente per mandato, perché il terapeuta è troppo spesso destinato a ruoli asimmetrici – curante/paziente, docente/studente – ed è rara l’occasione di porsi da persona a persona, nel chiedere “ma tu, da terapeuta, che ne pensi?”.
Gli otto saggi si susseguono come tracce di album musicale, ed è questa la disposizione a cui inviterei nell’accostarsi alla lettura. Il libro apre in punta di piedi, con un breve saggio dal carattere onirico: una riflessione notturna sul tempo, il saggio tiranno. Lo scritto si pone come un preludio, con lo scopo di ricreare un’atmosfera, più che indagare un tema cardine dell’esistenza umana come il tempo. Il riferimento a Sant’Agostino non è mai esplicito, consolidando l’idea di non trovarsi davanti a un trattato scientifico, bensì ad uno spunto di carattere riflessivo. Il contenuto può non sorprendere il lettore fenomenologicamente formato, ma il suo intento è di configurare un duale, predisporre il terreno interno del lettore alla profondità che conseguirà nella lettura. Un riscaldamento, a partire dal tempo per raggiungere il senso.
Il secondo saggio scende un primo importante gradino nella profondità del senso, attingendo a fonti psicoanalitiche, volutamente non approfondite al fine di non affaticare il lettore. L’autore introduce la filosofia delle religioni occidentali, raccontando la fatica di colui che rifiuta l’illusione metafisica, rievocando nella mente del lettore esistenze che vanno da Spinoza a Nietzsche, alla ricerca di una metafisica pratica dell’esistere: una saggezza che permetterebbe di reggere l’angoscia sottesa all’esistenza ed arrivare preparati a quella morte che il poeta Rilke chiedeva in dono.
Abbiamo timore quando ci addormentiamo? La morte allora non sarà più così terribile se la si vede secondo questa analogia, per quello che è: un’infinita, definitiva perdita di coscienza che ci accomunerà con tutti gli altri esseri umani che nella storia dell’umanità ci hanno preceduto.
La chiusura su Sartre introduce il nuovo saggio incentrato sui valori e sulla trascendenza dell’umano, mai intesa in senso religioso-metafisico, bensì come capacità umana del poter essere oltre ciò che si è. L’uomo si emancipa dal regno animale attraverso l’innesto dei valori entro l’esistenziale della temporalità.
L’essere umano non può sottrarsi alla croce della sua capacità intellettiva e dell’autocoscienza che, permettendogli di soffermarsi sul passato e di anticipare il futuro, lo rende vulnerabile all’ansia, alla depressione e soprattutto alla paura della morte, una paura che accomuna gli esseri umani e li include in un’unica tragica condizione.
Il quarto saggio ripulisce il palato del lettore dal sapore amaro del disagio della civiltà, introducendo un carattere che configura gli itinerari del suo trascendere: il desiderio. Anch’esso è strettamente legato al tempo, alludendo al concetto di cronodesi di piriana memoria. Non c’è desiderio senza tempo:
Il tempo è lo sguardo che l’io lancia alla meta del proprio desiderio.
La brevità di questo quarto saggio lo configura come un interludio prima della title track. Il quinto saggio racconta del bisogno primario di senso dell’essere umano, strizzando l’occhio all’analisi esistenziale di Frankl, menzionando anche quegli scenari in cui l’essere umano arriva ad autodistruggersi pur di preservare un senso.
Nulla è più forte del vincolo e della funzione di appoggio che queste strutture di senso garantiscono al soggetto dinanzi all’angoscia della vita e della morte, e quindi del non-senso potenziale della vita.
Il saggio culmina con una lettura nietzscheana dell’uomo ammalato di trascendenza, della sfida che ogni giorno affronta alla ricerca della sua libertà e nel reggere la responsabilità che ne consegue. Il testo raggiunge qui forse il punto di maggiore pienezza, un’investitura di significato che coniuga il divino dell’esistenza col suo essere umano, troppo umano. Dopo aver attraversato i meandri oscuri della psiche umana, il lettore riemerge impugnando il potere della scelta e della responsabilità che ne deriva. Siamo gettati nel mondo e la vita è un mare aperto, ma l’uomo ha imparato a nuotare.
Siamo ormai in dirittura d’arrivo e l’autore desidera lasciare degli strumenti epistemologici interrogando quella rivoluzione cartesiana messa in dubbio tanto da un filosofo quale Husserl, quanto da un neuroscienziato quale Damasio. Anche l’autore assume un divertito ruolo anticartesiano, raccontando come sia ciò che “non penso” a identificare l’essere dell’umano. In un’esistenza che precede l’essenza, l’autocoscienza diventa un sestante che ci orienta nel mondo, alla ricerca di un autenticità:
In sostanza la sfida è questo trovare da esseri umani da esseri autocoscienti un senso autenticamente personale nel fatto di essersi e di vivere.
Dopo aver imparato a vivere si rende necessario imparare a morire, ed è questo il proposito a cui il settimo saggio, anch’esso tra i più brevi, desidera dare spunto, a partire dai versi del poeta Ungaretti.
Per la conclusione l’autore sceglie di non chiudere il cerchio, ma al contrario concedere un finale aperto, a sfumare, quasi come ad invitare il lettore a continuare da sé, ad aver cura dei semi che nel corso delle pagine sono stati piantati nel terreno della propria consapevolezza. L’ultimo saggio difatti riprende la questione della cultura occidentale, della religione e delle angosce di morte, confidando negli strumenti che il lettore ha raccolto nei saggi precedenti ed invitando a una sfida dal carattere antropologico, trasversale a ontogenesi e filogenesi: l’invito al vivere bene, facendo sì che la civiltà non sia una gabbia entro cui trincerarsi, ma che sia uno strumento di incontro, di rispetto, di trascendenza, al servizio della costituzione di un senso.
È un libro breve, non arriva alle cento pagine, e per la scrittura fluida e chiara dell’autore potrebbe essere serenamente letto tutto d’un fiato, tuttavia il mio consiglio è di non avere fretta. Ogni saggio raccoglie un tema, ed ogni tema apre a vissuti, riflessioni, merita una digestione piena e lenta, una sedimentazione che favorisca una nuova lettura innanzitutto interiore. È un libro versatile, per pubblico e tipo di impiego che può esserne fatto: adatto allo studente che ricerca una filosofia su cui edificare la propria scienza, così come al terapeuta navigato in cerca di nuova linfa per le proprie riflessioni, o ancora al lettore digiuno di psicologia e filosofia, che desidera interrogarsi sul senso e sull’umano; può rivelarsi un ottimo libro da comodino o da viaggio, per l’apertura che offre e il senso di compiutezza di ciascun saggio, oppure un ottimo testo da condividere in un circolo di lettura, pronto a stimolare profonde discussioni, tanto nei luoghi di settore, quanto per lettori lontani dai mondi psi, ma avidi di idee, pensieri, riflessioni. Nicastro riesce nel proposito di scrivere un libro fruibile da tutti, a patto che il lettore rechi con sé una domanda di senso ed uno spazio di profondità, un terreno abbastanza fertile da far germogliare i semi raccolti tra le pagine. Ad alcuni offrirà spunti, ad altri conferme, ad altri ancora rivelazioni, ma senz’altro questo testo porta a termine in maniera efficace una missione preziosa: ricordare che “non di solo pane vivrà l’uomo”.