Recensioni

SPOSTARE LE COSE, CU ‘E PAROLE.

Una recensione a Esistenze in crisi. Accadimento. Vissuto. Intersoggettività (2023) e Nel volo lieve della neve. Per una psicologia della sofferenza e della ripresa a partire da Primo Levi (2024), di Antonio De Luca (editi da Edizioni Universitarie Romane)

Una recensione a Esistenze in crisi. Accadimento. Vissuto. Intersoggettività (2023) e Nel volo lieve della neve. Per una psicologia della sofferenza e della ripresa a partire da Primo Levi (2024), di Antonio De Luca (editi da Edizioni Universitarie Romane)

Io seguo con le parole l’emozione, non le lascio il tempo
di rivestirsi in frase… l’afferro nuda, e cruda,
o meglio nella sua poeticità.
Perché il fondo dell’Uomo malgrado tutto è poesia

L. F. Céline, 16 aprile 1947

Questo testo propone una mia lettura dei due ultimi lavori di Antonio De Luca, psicologo e fenomenologo calabrese, impegnato costantemente, a partire dai primi anni duemila (2005, 2006, 2009), nell’ingrato compito di ridefinire il campo, l’identità, il lavoro e l’oggetto della psicologia fenomenologica.

Sono oramai molti anni, infatti, che De Luca si muove tra pazienti, studenti e ricercatori, colleghi in Italia e all’estero, raccontando del suo lavoro, della sua esperienza professionale e accademica, ma soprattutto raccontando della sua idea di fenomenologia e di psicologia, lontana infinite iarde da dati, numeri e acronimi dei più vari.

Antonio De Luca ha il viso segnato di un minatore tornato alla superficie dopo una carriera tra i minerali, a fianco delle cose e della vita, la propria e quella degli altri. Ha le rughe intorno agli occhi di chi ha letto molto, di chi è abituato a stringere le palpebre nel tentativo di fare strada alle parole, le migliori possibili per spiegare quanto conosce. Antonio è riemerso dalle tenebre oscure della tecnica, ne è uscito sporco di esperienza, trascinando con sé come la sintesi di quanto ha compreso essere l’essenza della domanda, del campo di conoscenza dei clinici tutti, avendo ovvero compreso come nel concetto, nell’esperienza della sofferenza si racchiuda tanto di ciò che la fenomenologia è chiamata a illuminare.

L’afflato operativo del dire e del fare fenomenologia di De Luca è ovviamente, partendo dal campo della sofferenza, quello del sollievo, quello della leggerezza a partire dall’intuizione, dalla visione, dalla poesia e narrazione, dalla condivisione di un mondo, di un dolore, di un evento.

I due libri, che ho avuto il piacere di presentare nel giugno del 2024 a Roma e che qui provo a raccontare di mio[1], attingendo a piene mani dagli scritti che ospitano e quindi riflettendo su quanto mi hanno permesso di comprendere del mio quotidiano fare clinico, sono due testi preziosi per quanti vogliano avere una idea piuttosto precisa di cosa vuol dire fare psicologia fenomenologica oggi. Sappiamo bene infatti che la fenomenologia è una delle chiavi di accesso al mondo della coscienza, della riflessione, dell’essere insieme alle cose e agli altri in maniera vera, autentica e non solo per teorizzazioni, ed è in questo senso che ognuno di noi è eticamente chiamato a scegliere, o farsi scegliere, da un campo di applicazione di sé stesso e quindi della propria sensibilità, nel quale dare del proprio meglio nella pratica d’aiuto propria della psicologia. Una pratica di parole, di senso e di esperienza.

Antonio De Luca, con questi due testi, una curatela e una monografia, indica al lettore e allo studioso la strada che la sua riflessione e quindi il suo fare hanno preso lungo la sua vita di uomo, clinico, studioso e ricercatore, parti di una sola identità, indistinguibili l’una dall’altra, al servizio dell’altro sofferente.

Nei due testi, la questione dell’accadimento appare quale primo movimento utile – insieme alla reazione del soggetto – per inserirsi nel fil rouge della raccolta del 2023 e quindi nella scia di De Luca, e provare così a raggiungerlo lì dove la sua riflessione lo ha portato, ovvero in una posizione di grande rispetto e attenzione per il vissuto e la singolarità vissuta, per la complessità della vita e quindi per l’altro.
L’accadimento è una presenza fondamentale nell’intero testo, una presenza che segue le riflessioni degli autori e che li sfida a metterne in luce declinazioni note e meno note, ad utilizzare i propri mezzi linguistici per tirarne fuori una descrizione utile, a sospendere il proprio sapere per sorprendere il non detto. E spesso il trucco riesce.

“L’accadimento è la vera chiamata, la domanda cui occorre rispondere e, appellati, risponderemo. Comunque. Anche con il proprio e muto silenzio e lo smarrimento, radicale e definitivo. Con la poesia o con sua sorella sfortunata…” (13*)

L’accadimento è il momento della resa dei conti, alla quale rispondiamo per come la vita, per come l’esperienza, per come l’eredità ci hanno preparato.

L’accadimento come “situazione limite” richiamata in maniera eccellente da Maria Armezzani nel suo splendido capitolo, è al centro dell’intero lavoro di Antonio De Luca e dei coautori del primo testo, ma è anche importante elemento del secondo suo testo.

L’accadimento ha un suo proprio tempo, un suo spazio. Colora tempi e spazi del suo tono, cerca l’anniversario l’accadimento, sospende un giorno e un’ora, li fa propri eleggendoli, sollevandoli dallo scorrere ritmato del tempo, dalla geografia sempre uguale delle mappe spaziali, dal calendario che ripete lo scorrere dei mesi e delle stagioni, per immetterli in una bolla sospesa che li conserva, in quanto ciò che è stato una volta, rischia di esserci sempre, per sempre.

Certo che può anche essere gioioso l’accadimento. Una nuova nascita, una laurea, un compleanno, una promozione, una domanda di trasferimento che viene finalmente accordata. Ci sono infiniti accadimenti che raccontano di gioia, compartecipazione festosa.

Ma l’accadimento che provoca una crisi, un momento di rottura, è quello che produce sofferenza, il secondo punto di repere di questi due testi.

Ricordo un capitolo di Jan Hendrik Van Den Berg, testo del 1961 che ho curato una decina di anni addietro insieme a Gilberto Di Petta e Mario Rossi Monti (2016), nel quale l’autore descriveva, parola a noi molto cara, il cambiamento del proprio mondo alla notizia che l’amico, che stava attendendo per una cena, non lo avrebbe raggiunto. Il mondo d’intorno, la stanza, il vino, il camino prendono di colpo un’altra forma, smettono l’attesa per la delusione:

“È inverno. Sta cadendo la sera, e mi alzo per girare l’interruttore della luce; nel far questo, mi accosto alla finestra, e vedo che ha cominciato a nevicare, e ogni cosa si sta coprendo di neve candida, scintillante, che scende silenziosa dal cielo coperto da una pesante coltre plumbea.
(…) Mi stropiccio le mani, pregustando la serata: qualche giorno fa ho telefonato ad un amico, invitandolo a passarla con me. Fra un’ora sarà a casa mia, e la neve rende ancor più attraente la prospettiva di passare queste ore con un amico. Ieri ho comprato una bottiglia di buon vino, che ora sistemo alla debita distanza dal fuoco; poi siedo alla scrivania a scrivere alcune lettere. Ma mezz’ora più tardi squilla il telefono: è il mio amico, telefona per dirmi che un fatto imprevisto non gli permette di venire. Scambiamo poche parole, rimandando l’incontro a uno dei prossimi giorni. Quando depongo la cornetta, ho l’impressione che la stanza sia diventata in un certo qual modo più tranquilla e più silenziosa, e le ore che devono seguire mi sembrano più vuote e più lunghe. (…) A un certo punto alzo la testa per riflettere su un passaggio che non mi è del tutto chiaro, e l’occhio mi cade sulla bottiglia, vicino al fuoco. (…) Decisamente, non ho visto un vetro verde, né un’etichetta bianca, né una capsula di piombo. In realtà ho visto, diciamo così, la delusione perché il mio amico non è venuto, la solitudine della mia serata. Ho visto una bottiglia, naturalmente, ma ho subito dimenticato l’oggetto per ricordare solo il valore soggettivo che esso ha acquistato per me.”

L’accadimento (inatteso, rapido, ripido) incontra la persona, provocando il vissuto, l’evento vissuto.

La domanda sul perché reagiamo in un certo modo, sul perché viviamo le cose in maniera differente, è una domanda importante che non ammette soluzioni e tantomeno spiegazioni semplicistiche: il temperamento, l’esser fatti in una certa maniera, il passato, i piani per il futuro ecc.
Ci sono ragioni che non andrebbero ragionate, domande che non andrebbero domandate, questioni che non andrebbero questionate troppo in fretta.

Ciò che è certo è che, qualunque sia a reazione e la posizione dell’altro, si può avvicinare e sostare al suo fianco, ma solo dopo aver dimenticato momentaneamente il nostro essere qualcosa, essere professionisti, professori o dottori, che comunque continuiamo ad essere e come i quali continuiamo a ragionare (ma senza applicare praticamente il nostro sapere).

Sospendendo il mondano resta il puro vissuto, il livello nel quale recuperiamo l’intersoggettività.

L’intersoggettività, il livello antropologico di base, dove ritroviamo il senso delle cose, è il terzo punto focale di questi due testi.

Il senso delle cose, apprendiamo infatti essere, infine, il comune destino di vulnerabilità e quindi di esseri finiti che provano finché possono a dimenticare che la loro vita è un dono, qualcosa di inatteso ma che ha una fine, e prima ancora va incontro ad un destino di decadimento, di zoppia, di infortuni.
Così nella comune, sociale e culturale dimenticanza, della quale già Franz Comelli, uno dei miei primi maestri urbinati e amici, per primo mi avvertì, siamo tutti fratelli, tutti simili, tutti diversi ma allineati in uno spunto di inconsapevole certezza nel futuro dei progetti.

Ma, se è vero quanto afferma il famoso detto ebraico, che “Se vuoi far ridere Dio, puoi raccontargli i tuoi progetti” prima o poi il caso, il corpo, l’altro verrà a ricordarci la verità, la base comune che tutti condividiamo e che tutti, con più o meno difficoltà, teniamo a bada sinché riusciamo.

Di fronte ad un accadimento doloroso viene fuori, si fa vedere la “singolarità”, afferma la prof.ssa Ales Bello, che invece nella fisiologia dei rapporti, del mondo e del corpo non appare, permettendo ai soggetti di rientrare con maggiore facilità all’interno di confini e categorie prestabilite.

Singolarità come personale “non condivisione dello stile di esperienza comune” (Ales Bello), ma anche singolarità come spunto artigianale e artistico, come è e deve essere lo stile terapeutico, originale e artistico, come ci ricorda sempre la professoressa nel suo capitolo.

Noi, in effetti, lungo il nostro cammino non incontriamo che singoli. Singoli soggetti, singoli mondi, singoli accadimenti.

Anche W. Bion, nel suo mettere insieme i reduci della II Guerra Mondiale che provava a curare nel suo ospedale militare, a Norfolk, incontrava singoli uomini alle prese con il loro singolo e singolare accadimento che era però avvenuto all’interno del maggiore dei drammi collettivi di sempre. Si trattava quindi di singoli uomini che è riuscito a raggruppare e mettere in gruppo, facendo così tornare le singole storie a far parte di una possibile comune narrazione, ridando fiducia e responsabilità all’essere gruppo, ma soprattutto all’essere unico destino, all’aver subito ciò che l’uomo non solo deve essere pronto a subire ma anche a infliggere l’altro. La ferita, la sofferenza, la morte. La guerra.

In questo senso mi piace qui fermarmi un attimo sulla vulnerabilità, altra chiave dei due testi, attraverso il contributo di Maria Armezzani. Il contributo di una grande psicologa, grande fenomenologa, che ha iniziato alla fenomenologia, ad una psicologia conscia e non dimentica del vissuto, centinaia e migliaia di studenti e decine su decine poi di allievi.

Dopo aver letto tanto della sua produzione, Maria l’ho incontrata dal vivo, a Padova, solo purtroppo gli ultimi mesi della sua vita.

Nel suo splendido lavoro, Maria racconta e discute di vulnerabilità. Lo fa da par suo, da fenomenologa e psicologa, sempre ovvero con in mente, nelle mani e nella visione, l’idea del senso, anche pratico, di un dire e di un discutere fenomenologia.

Lo fa innanzitutto rimettendo in discussione il dato, la fama e la gloria del concetto di vulnerabilità.
In perfetta linearità con i contributi della raccolta, Maria ragiona sulla dichiarazione di Barcellona e rimette al centro la vulnerabilità come questione intersoggettiva, ribaltando la mitologia del singolo contro il singolo, del singolo contro il mondo, della colpa e della vergogna annesse alla vulnerabilità, curabili tutte con la ricerca dell’indipendenza, dell’autonomia che:

“Resta solo un ideale, date le limitazioni strutturali che le sono imposte dall’umana finitudine e dalla dipendenza da condizioni biologiche, materiali e sociali” (67*).

In Filosofia della cura (2015), Luigina Mortari, nel tentativo di spiegare il senso della cura, arriva a dipingere una delle essenze del corpo, ovvero quella dell’imperfezione. C’è bisogno della cura perché siamo imperfetti, concetto che risuona nel discorso di Maria sull’ambiguità del corpo, soggetto e oggetto di conoscenza, malattia e jaspersiane situazioni limite, quando perfezione e imperfezione umana si incrociano senza più lasciarsi[2].

Prima di richiamare la centralità etica della vulnerabilità per la fondazione di una comunità curante, di una comunità a servizio della comunità, a partire da nuovi e ricentrati sistemi formativi consapevoli del carattere prettamente umano, patico e finito di ogni suo attributo, Maria ci racconta della possibilità che ogni situazione limite, ogni momento di sofferenza, ogni momento di risveglio dalla condizione di sonnambulismo (direbbe la De Monticelli) può regalare. Ai reduci verrebbe da dire:

“Se quella del fronte di guerra è una situazione limite estrema, tutte le esperienze di sofferenza hanno in potenza la capacità di riattivare la presenza altrui, purché si abbia la capacità di sostare nel dolore e di coglierne il senso universale, di approfittare del risveglio forzato che spezza l’anestesia della routine, per prendere atto di come siamo fatti” (78*).

Brevemente passo a dire della sofferenza alla quale ho assistito per anni, che ho provato per anni ad alleviare, quella presente in oncoematologia pediatrica.

Lo faccio, non per inutile orpello al mio scrivere, ma perché questi due testi hanno illuminato buona parte del mio operare, centrando aspetti sottotraccia, riportando in parole tanto delle mie azioni, tanto del significato implicito, silenzioso benché evidente, di quanto sono andato facendo sinché mi è stato permesso di restare al mio posto, al fianco dei bambini e dei loro genitori.

I genitori scoprono così, con la notizia della grave malattia del proprio figlio, che non si soffre solo da figli della mancanza dei propri genitori, della dipartita, delle perdite e delle ferite. Scoprono che si può soffrire anche da genitori, in quanto genitori.
I genitori dei bambini malati sono costretti ad accorgersi che anche i bambini possiedono un corpo, che sono imperfetti. È questa la scoperta angosciante, frutto in qualche modo dell’epochè, cui la malattia del proprio figlio li consegna.

Non è vero che tutti i bambini sono bellissimi, forse sì, ma di sicuro non lo sono allo stesso modo.
Così come non è vero che ai bambini sia garantita la salute. È vero per una stragrande maggioranza di essi ma non per tutti.

Io mi occupavo, e ancora tanti medici e psicologi bravissimi e valorosi si occupano di quei pochi, non sfortunati ma sicuro vicini prima degli altri a sentire e far sentire la propria, comune a tutti, fondativa vulnerabilità. Perché nessuno ci pensa, forse sarebbe meglio dire che nessuno ci pensa in tempo, come è anche giusto che sia.

La cura della sofferenza genitoriale sta anche qui nel tempo, che non guarisce le ferite ma che ti permette di vederle e prendertene cura. La cura sta quindi nell’attendere il tempo perché si possa parlare di ciò che accade.

A volte servono davvero pochi minuti, altre volte settimane.
A volte si può parlare solo, soprattutto, con la madre, mentre il padre resta assente, invisibile.
A volte si può parlare ma non di ciò che fa male.
A volte bisogna condizionare il tempo che appare come già finito, vuoto, semplicemente già andato.
A volte bisogna semplicemente lasciare il tempo che serve, restando in zona.

“Perché racconto vi sia (…) non basta soltanto la testimonianza di colui che ha sofferto: è necessario l’adeguato ascolto altrui, il suo silenzio partecipe, altrimenti si perpetua l’offesa, la disumanizzazione, si organizza la negazione” (24**)

Bisogna restare comunque in zona, imperativo etico e clinico.

Perché, attenzione, se è vero che esiste molto meno oggi il pericolo di disumanizzazione per i bambini malati, che forse anche per il minor numero di casi sono davvero conosciuti, restano esseri umani, restano bambini, vengono presi sul serio, in maniera completa e attenta, vengono riconosciuti nel dolore e nella gioia, è altrettanto vero che il pericolo disumanizzazione è invece sempre attivo per quanto riguarda i genitori dei bambini malati: il giudizio trionfa quasi sempre sulla compassione. Sulla comprensione.

“Non c’è tempo da attendere, non ci sono scuse. Possibile che non capisca?”

“Serve che tenga tranquillo il bambino, altrimenti non si può lavorare”.

Il tempo della tecnica non è quello dell’ascolto. Il tempo dello spiegare medico non è per forza quello del comprendere umano. Il tempo della cura non è quello della speranza. Il tempo del ricovero non è quello delle opportunità che non aspettano.

Bisogna quindi starci in questo vissuto senza pietà, fare da ponte quando la medicina, che riassume tutto con il nome di compliance, lascia guarire senza ascoltar la voce della sofferenza tra la sponda della tecnica e quella del vissuto.
Bisogna quindi starci e restarci anche quando non c’è altra via che quella puramente tecnica, quando è lontana la comprensione, in attesa dell’umano, in attesa del condivisibile, per la speranza.

Perché la malattia resti un fatto umano, perché la persona venga riconosciuta come umana:

“Si crea disumanizzazione ogni volta che l’altro diviene da mio simile uno straniero o, meglio, un alieno, un essere proveniente da un altro mondo, lontano nel tempo e nei luoghi, non da ascoltare quindi nelle sue ragioni, per quanto possano sembrarci assurde e inspiegabili, ma da riportare presto nel suo mondo o da farlo atterrare assai velocemente sul nostro e imporgli l’adattamento, senza cercare di capire il suo viaggio interstellare compiuto, pur tenendo presente la differenza tra comprendere e giustificare e la consapevolezza che si pone come reciproca responsabilità nell’agire. Nelle situazioni di potere (e quella terapeutica e della ricerca lo sono) la disumanizzazione crea trattamenti disumani con esiti imprevedibili.” (44**)

Il fenomenologo deve saper essere una persona.
Deve saper sentire il tempo dei genitori, dei pazienti.
Deve sentire lo spazio e rispettarlo, approfittare del sospiro che altro non è che un ponte di corda lanciato sull’abisso della solitudine. Un ponte dei sospiri.
Ma il fenomenologo deve anche poter essere ascoltato da una tecnica che voglia umanizzare le pratiche e lo voglia fare davvero. Deve provare a farsi ascoltare:

“… il racconto è interpersonale…” (24**) e lo deve essere per forza su più livelli, dal narratore all’ascoltatore, dal paziente a colui che prende decisioni, dall’istituzione ai gruppi, a colui che può salvarmi la vita.

La questione della sopravvivenza, di cui parlano Maria e Antonio, del ritorno e dell’esilio risuona per la raccolta di scritti ma anche, naturalmente nel testo di Antonio:

“La solidarietà degli scampati” (citando Patocka, che diceva dei soldati al fronte) è la solidarietà di chi è sopravvissuto al crollo delle certezze del quotidiano, di chi ha compreso l’essenzialità della vita e in questa comprensione si è trasformato per sempre”, scrive ancora Maria.

È stato per me davvero emozionante osservare gli scampati, osservare crescere i ragazzi che avevano subìto un blocco esistenziale e fisico quale quello dovuto alla malattia e alle terapie. Crescere di nuovo e insieme.

Pochi mesi prima del Covid avevo osservato quattro adolescenti riuniti insieme in reparto per un male comune passeggiare separati, darsi poi degli sguardi, cominciare a dirsi e sorridersi.
Avevo pensato allora a loro quattro, a quanto avevano in comune, e alle persone che potevano essere insieme. Ci avevano pensato anche loro insieme a me, che un gruppologo da prima linea sono stato e resto. Chiesi loro di riunirci, di metterci insieme e dirci di noi. D’altronde condividevamo tanto, a partire dalla geografia, dal tempo insieme in ospedale, alcune conoscenze poi delle quali avremmo anche volentieri fatto a meno e tanto altro, a ben vedere.

L’idea era quella di mettere su un gruppo esperienziale in ospedale, con ragazzi in terapia e fuori terapia, un gruppo aperto, a cadenza settimanale e senza scadenza prefissata: dove osano le aquile.
L’idea, quella di mettere in comune le esperienze per far sì non si sentissero soli, mettere insieme le vulnerabilità, potremmo dire dopo aver letto il capitolo a firma Armezzani, per farli convinti infine non si trattasse di debolezza, di sfiga, ma di destino comune, e che a cambiare è solo l’età in cui il destino si manifesta.
Ragazzi isolati, prossimi senza patria, scampati e reduci. Scopertisi vulnerabili, come tutti, ma solo prima degli altri.

“Se non possono di certo essere messe a confronto le diverse sofferenze, sarà dunque il rapporto con gli altri a offrirmi la comprensione radicale e autentica di quello che io stia vivendo” (61**).

Il Gruppo in principio si è chiamato “Non so come chiamarlo”, forse proprio per omaggiare quel tanto di esperienza che sfugge, quell’analfabetismo psicologico, quei meccanismi di negazione che tutti avevano messo in moto per sopravvivere a quelle ore frenetiche, drammatiche e senza nome.

Dopo un anno circa di incontri, il gruppo, formato allora da più di dieci membri, ha voluto cambiare nome e darsi invece quello di “Luogo comune”, a significare ironicamente la lotta contro e oltre i pregiudizi, il luogo comune di esperienza, ma anche quello fisico in cui ci si era incontrati.

Perché se è vero che: “… chi è stato agli inferi cammina d’ora in poi senza patria” (28**) è anche vero che un gruppo di senza patria ne formano una tutta loro di patria, una patria nostra, un luogo comune, appunto, dove continuare a crescere e fiorire nella condivisione, perché, come diceva il mio maestro Lorenzo Calvi, l’alienità condivisa equivale all’alterità.

Il ruolo del conduttore allora è quello del testimone o cantore della sofferenza, di colui che canta, raccoglie, descrive l’esperienza del gruppo che è somma e di più della somma delle esperienze. Come Ulisse ospite dei Feaci, gli adolescenti, nel tentativo di essere degni della storia che stavano vivendo quasi da turisti, si raccontavano raccontati dal sottoscritto e dal gruppo:

“Gli esiliati non sono degni del proprio racconto, delle proprie ragioni (…) Non si ha più storia, ma neanche ragioni. Nessuna. E senza la propria storia ascoltata non si è più degni di essere umani. E in Esilio si diviene colui che esagera, il diverso, il folle abitante dell’altro mondo, di un altrove senza cittadinanza. Ogni esiliato denuncia la disumanizzazione del rapporto” (241**).

In questo senso si ha la necessità di un cantore – e chissà di quali canti ha cantato Antonio in questi suoi due libri, soprattutto in quello su Levi. Vi è la necessità di qualcuno che ascolti essendosi prima ascoltato, qualcuno che suoni risuonando, che scriva scrivendosi:

“A volte è possibile sopravvivere all’inferno, ma non a ciò che questo produce se non incontro l’altro.
Per un poeta che riesce a cantare agli inferi, vi sono tanti che non riescono a sopportare l’Esilio, il loro essere rifugiati, esclusi e abbandonati, reduci, alieni in un mondo altro. Non riescono a sopravvivere con il racconto e con la scrittura, non riescono a lanciare la parola oltre il filo spinato e quando vi riescono possono con la loro inquietudine naufragare ancora. Né lo stesso poeta riesce ad abitare gli inferi per molto tempo, se non al prezzo di rimanervi intrappolato” (234**).

E infine la Poesia.

Sulla poesia si potrebbe dire tanto, ma ciò che a me interessa oggi, e che rilancia ai miei occhi l’idea e l’interesse per la poesia, è il pensare la poesia come il superamento visionario della descrizione. Come un movimento conoscitivo.

La descrizione, l’osservazione è da sempre al centro del metodo fenomenologico, della scoperta dei modi di essere delle cose, del rivelamento dei fenomeni oltre le mute abitudini e attraverso le apparenze.

Come l’organo della vista viene superato da quello trascendentale della visione, così la descrizione naturalistica, oggettiva, viene superata dalla descrizione poetica, dalla rivelazione di contorni, di modi di essere, delle essenze che appaiono solo ad un occhio allenato alla poesia, a descrivere le essenze che si incontrano a saperle osservare, a saperle attendere:

“L’incontro poetico oltrepassa il finito e il silenzio della pietra dietro cui il male vorrebbe rinchiuderci e incatenarci e con cui contagiarci. L’incontro poetico non dispone di molte parole, non ne ha bisogno, non è registrabile nei crediti formativi, né si nutre di approcci formali, ricerca l’essenziale, spesso i silenzi, e si ciba del fruscio lieve che si anima nei piccoli ruscelli di montagna” (82**).

D’altronde lo dice in maniera irripetibile anche Bobin (2019, 33):

“Contemplazione non è una decorazione, non è una grazia, non è qualcosa di estetico, è come mettere la mano sulla punta più sottile del reale. E nominandolo farlo accadere. Il reale è dal lato della poesia e la poesia è dal lato del reale”.

In questo senso la psicologia riacquisterebbe almeno in parte la propria “innocenza perduta”, come denuncia con forza e autentico dolore, infine in tutto il secondo testo, lo stesso autore (55**), ed è infatti proprio alla ricerca di questa innocenza, di questo sguardo rinnovato e libero sul fenomeno, che questi due libri orientano la direzione, ne siamo certi, anche della futura ricerca di De Luca, capace di raggruppare intorno alla sua figura un gruppo di ricercatori come lui orientati alla cura della sofferenza attraverso parole che disegnano mondi e vissuti, come sono anche quelle poetiche.

Con la descrizione poetica, infatti, il clinico si riprende la responsabilità di dire, di affermare quanto sente e quanto vede oltre il banale descrivere sintomatologico, oltre l’ovvio ripetere quanto già detto e scritto da altri occhi. Si riprende il fenomeno oltre tutto il resto.

La poesia è quindi un’opera riumanizzante per l’oggetto e il soggetto delle parole, della descrizione e visione. È un antidoto alla disumanizzazione che è seguire tracce valide per tutti, uguali per ogni paziente, per ogni socio al mondo. La disumanizzazione che è accogliere senza autenticità, che è lasciare l’altro nell’angolo buio del nostro interesse, illuminato dalla accecante luce dei manuali.

Con la poesia, così come con la visione, noi siamo invece capaci di avvicinare l’altro nella penombra, ammirarne i profili, raggiungerlo nel suo mondo, vederlo, descriverlo dove davvero si trova. Ma, possiamo farlo, possiamo descriverlo nel suo mondo solo perché prima ci siamo allo stesso tempo finiti noi.
Per stargli al fianco, per spinta etica, per quella passione informale che non è mai una forzatura e che risiede nella strada in comune.

Perché la poesia, come la fenomenologia, riesce a spostare le cose, citando Troisi in Ricomincio da tre, cu ‘e parole.

La poesia è accorgersi del sacro, è creazione di un campo comune di visioni, è un fare, è capacità di creare la paarung, necessaria forma di accoglienza del senso e quindi parte fondamentale di una cura che voglia dirsi davvero umana e di una speranza che, come dice Barth, si “attua nel fare il passo successivo”.

Speranza che non si declina solo nella passiva attesa ma va, tra immagini, apparizioni, suoni ed emozioni, incontro all’altro, in attesa della sua rivelazione, mai satura, mai l’ultima.
Speranza che non spera, ma opera andando incontro alla sofferenza, senza giudizio e senza coprirsi di troppe teorie, perché sa bene che l’unica coperta utile è quella che lascia vedere, che lascia immaginare il freddo di fuori.

 “Mi sembra come la poesia sia come una spiegazione, ma che non spiega nulla. È come una scienza, è la sola scienza che non maltratta il suo oggetto.  Forse perché non lo tratta come un oggetto, per l’appunto.  La poesia entra nel mondo come in una casa amica, rivela l’oggetto, lo porta a rivelarsi, non lo forza” (Bobin).

BIBLIOGRAFIA

Ales Bello A., De Luca A. (a cura di), Le fonti fenomenologiche della psicologia, ETS, Pisa, 2009.

Bobin C., Abitare poeticamente il mondo, AnimaMundi, Otranto, 2019.

Céline L. F., Lettere dall’esilio 1947-1949, Rosellina Archinto, Milano, 1992.

De Luca A. (a cura di), Verso una psicologia fenomenologica ed esistenziale, ETS, Pisa, 2005.

De Luca A., Dentone A. (a cura di), Le fonti esistenziali della psicologia, ETS, Pisa, 2006.

De Luca A., Esistenze in crisi. Accadimento. Vissuto. Intersoggettività, EUR, Roma, 2023.

De Luca A., Nel volo lieve della neve. Per una psicologia della sofferenza e della ripresa a partire da Primo Levi, EUR, Roma, 2024.

Mortari L., Filosofia della cura, Cortina, Milano, 2015.

Van Den Berg J. H., Il metodo fenomenologico in psichiatria e psicoterapia, Fioriti, Roma, 2016.


[1] Nel testo, le citazioni prese da Esistenze in crisi saranno accompagnate da un asterisco dopo il relativo numero di pagina, mentre quelle provenienti da Nel volo lieve della neve di asterischi ne avranno due.

[2] Questo testo ha avuto tra le altre cose il merito di avermi in parte spiegato la passione che ho avuto fortissima e ancora ho per gli scrittori soldato, il primo Céline, Henry Barbusse, Hemingway, Enrico Maria Remarque, Ernst Jünger e altri. Maria, e questo testo, mi hanno spiegato cosa andassi a cercare, ovvero la materia di prima mano, il faccia a faccia (alzo zero) con la situazione limite, l’esperienza al fronte caldo della situazione, nel disgregarsi del passato del combattente in un presente sospeso, in una prima linea tra i mondi, quello del civile e quello del guerriero, quello dello studente e quello del soldato. L’esperienza della disgregazione.

Paolo Colavero

Psicologo e psicoterapeuta, UOSVD Di Psicologia Ospedaliera, PO Vito Fazzi, ASL Lecce, vice caporedattore della rivista "Comprendre". Socio fondatore della Scuola di Psicoterapia Fenomenologico-Dinamica, socio e membro Comitato Scientifico della Società italiana per la Psicopatologia Fenomenologica. Socio e docente Istituto Italiano di Psicoanalisi di Gruppo, socio SICP e SIPPed. Co-autore, con Lorenzo Calvi, di 'La Luce delle cose' (Mimesis, 2019), curatore di 'Storie cliniche' e 'Il Paradigma Erlebnis', con Gilberto Di Petta (EUR 2014, 2016), 'L'animale di gruppo' (Mimesis, 2011), autore di ‘Le strade perdute’ (ETS, in stampa).

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