Nella vita di tutti i giorni abbiamo sempre a che fare con il tempo: quando siamo al lavoro e, guardando l’orologio, ci interroghiamo su quanto manchi alla fine di quella lunga e stancante giornata; quando impostiamo il timer per la cottura della pasta; quando, contando alla rovescia, aspettiamo carichi di curiosità e buoni propositi l’arrivo di un nuovo anno. È evidente che in questi esempi, come in molti altri, ci si riferisce ad un tempo misurabile, quello che Bergson definiva tempo assimilato allo spazio (Bergson, 1896; Minkowski, 1968). Persino la clinica, in alcuni suoi contesti, adotta lo stesso atteggiamento quando, indagando il disorientamento di un paziente, lo interroga rispetto alla sua data di nascita o alla data in cui è effettuato l’esame.
Ciò che risulta sempre più evidente, in prima battuta nelle riflessioni filosofiche che segnano il passaggio dalla filosofia antica a quella medievale[1], e in seconda analisi dalla svolta ontologica introdotta dalla filosofia esistenzialista a partire dal ‘900, è il fatto che l’esperienza della temporalità implica la convergenza ma anche la distinzione non confondibile di tempo qualitativo (Lebenszeit) e tempo quantitativo (Weltzeit). Il tentativo di eliminare una forma della temporalità a esclusivo vantaggio dell’altra costituisce l’infondata pretesa di ogni riduzionismo, in particolare da parte della psichiatria cosiddetta organicista; consapevolezza ben chiara anche a pensatori come Dilthey (1833 – 1911), Binswanger (1881 – 1966), Jaspers (1883 – 1969) e Eugéne Minkowski (1885 – 1972) che si affacciano nel panorama scientifico della neo-emergente psichiatria fenomenologica[2].
Bergson (1896) afferma che il tempo della vita, cioè quello che appartiene all’essere umano, implica una coscienza che sperimenta la temporalità in maniera soggettiva a seconda della specifica esistenza; in altri termini, il tempo del quale possiamo fare esperienza è in realtà il tempo che noi stessi siamo. In quest’ottica, dunque, la temporalità[3] entra a far parte della riflessione sull’essere umano fino ad assumere un ruolo fondamentale: come sottolinea Heidegger, essa costituisce “il senso ontologico della cura” (1927, p. 454), intesa come cifra fondamentale dell’Esser-ci. La temporalità è ciò che rende possibile l’Esserci (il Dasein) nella totalità strutturale delle sue determinazioni e rappresenta l’orizzonte di ogni comprensione e di ogni interpretazione dell’Essere (Essere è Tempo).
A partire da queste rivoluzioni teoriche, in ambito clinico e psicopatologico cambia il modo di interrogarsi su quello che è il rapporto fra temporalità e sofferenza psichica: come cambia la relazione fra temporalità ed esistenza in pazienti che soffrono di specifiche psicopatologie? Quali altre strutture pre-riflessive dell’esistenza subiscono cambiamenti? (Fuchs, 2013). L’idea di fondo che guida le ricerche è la considerazione che la temporalità sia ciò che da direzione e senso all’Esserci, tanto quanto la sua destrutturazione sia indicativa di una certa psicopatologia e di un certo modo difettivo di essere al mondo.
In estrema sintesi e senza pretesa di completezza, questa introduzione permette di comprendere l’analisi che il presente lavoro intende offrire, ossia cercare di delineare le differenze che intercorrono fra l’esperienza della temporalità nel disturbo ossessivo compulsivo e nella schizofrenia. La scelta rispetto a queste due condizioni di sofferenza psichica trova ragione in un aspetto che emerge in modo sempre più evidente nella letteratura scientifica da alcuni decenni a questa parte: la psicopatologia e la psichiatria fenomenologica cercano sempre di più di indagare le strutture pre-riflessive dell’esperienza, ovvero aspetti come l’essere-sempre-mio dell’esperienza, la continuità della coscienza, la temporalità e l’evidenza naturale. Per comprenderne le manifestazioni patologiche è necessario interrogare quelle psicopatologie le cui manifestazioni dipendono, in primo luogo, da tale difettualità di accesso all’esperienza come, ad esempio, i disturbi dello spettro della schizofrenia e i disturbi ossessivi.
Temporalità e Disturbo Ossessivo Compulsivo
L’esperire temporale dell’anancastico[4] (dal greco “anancasmo” – ἀναγκασμός – ossia costrizione, fatica) subisce una distorsione significativa che si declina in alcune particolari manifestazioni. Agostino (354 – 430 d.C.) sottolinea che il tempo, inteso nei termini della temporalità, trova misura e realtà nel distendersi dell’anima (tempo ossia “distensio animi”): nel distendersi della vita interiore lo spirito temporale si manifesta nel ricordare (passato), nel prestare attenzione (presente) e nell’attendere (futuro). La concatenazione, la distensione di questi tre attimi costituisce l’esperienza interiore dello scorrere del tempo e del divenire, e dunque della realtà. L’idea di una coscienza che esperisce il tempo la si può ritrovare anche in Husserl (1966): l’analisi della coscienza del tempo, quella degli oggetti temporali e della loro durata, implica che ogni fase attuale della percezione (presentatio) rimandi ininterrottamente, per la propria completezza, alla ritenzione della fase passata (chiamata inizialmente memoria primaria) e alla protenzione verso quella futura (attesa primaria) (Stanghellini, Mancini, 2018).
La temporalità, invece, nelle forme esperienziali dell’ansia ossessiva sembra presentarsi nel silenzio di un’articolazione storica; non esistono più salienze e significati temporali caratteristici che collocano, nello scorrere dell’esistenza, le esperienze di vita del paziente (Straus, 1948). In altri termini, è come se si verificasse un collasso degli attimi rispetto a cui si costituisce l’esperienza interiore del divenire. Questo peculiare modo di avvertire (o non avvertire) il tempo, si riflette nel racconto del paziente ossessivo: in alcuni casi, “aver fatto” e “avere intenzione di fare” non hanno più una salienza temporale distinta, che permetta al paziente di collocare la realizzazione dell’azione in dimensioni temporali e di possibilità differenti. In questo collasso delle dimensioni temporali è interessante notare come anche i momenti distinti che compongono l’agire (ossia la Praxis, come la definisce Aristotele nell’Etica Nicomachea – libro IV), quelli che il filosofo greco chiamava Archèin (inizio) e Protèin (portare a conclusione), si fondono in una con-fusione inestricabile che paralizza il soggetto e il divenire della sua esistenza. Troviamo questo concetto anche nelle parole di von Gebsattel (Minkowski, von Gebsattel, Straus, 1967, p. 83):
L’anancastico non accede, come una persona normalmente inserita nel flusso del proprio divenire, all’esperienza veramente vissuta di attuazione dell’azione ed è questo il motivo per cui dopo il suo fattuale compimento sorge il dubbio sulla realtà del suo effetto. Il mero sapere intellettivo circa il nostro fare non surroga la forza di convinzione insita nel moto spontaneo della vita che si attua. È solo attraverso questo divenire vitale che l’azione singola assume il senso di una fase nel contesto di realizzazione di se stessi.
Venendo meno una originaria articolazione del tempo in un “prima-ora-dopo”, anche l’agire, come la temporalità, appare a sbalzi e manca di un’articolazione unitaria e della nota marcatamente teleologica che guida la progettualità umana: è come se nell’esperienza dell’anancastico non solo fosse compromesso il momento dell’Archèin ma fosse anche preclusa l’esperienza del concluso. L’impossibilità di percepire un tempo concluso, finito e, dunque, passato, impedisce lo schiudersi dell’esistenza al futuro (Minkowski et al., 1967).
È interessante notare come alcune forme post-moderne[5] di DOC presentino un’esperienza della temporalità diametralmente opposta rispetto a quella descritta dagli autori sopra citati. Citando “Argomenti di clinica psicologica” (2024), gli autori sottolineano come la temporalità dell’ossessivo post-moderno possa anche configurarsi come il tempo del ritardo, caratterizzato dall’essere continuamente centrato sul futuro e sul raggiungimento degli obiettivi, dove diventa centrale il concetto di produttività. In questo caso, la distensio animi risulta sintonizzata su un futuro che mangia costantemente il presente, paradossalmente paralizzandosi nel momento in cui la pressione del futuro, del dover fare sempre la scelta giusta per raggiungere la propria direzione, blocca il dinamismo esistenziale e getta la persona nella tipica sofferenza della post-modernità.
Temporalità e Schizofrenia
La schizofrenia è una condizione psicopatologica complessa, in cui risultano compromesse diverse strutture di base pre-riflessive dell’esperienza. Prima di analizzare la de-strutturazione della temporalità caratteristica della schizofrenia è necessario fare una premessa teorica che aiuterà a comprendere l’effettiva esperienza di difettualità temporale schizofrenica.
L’esperienza soggettiva della temporalità si manifesta secondo due distinte direttive: da un lato, esiste una temporalità esplicita o fenomenica, dall’altro una temporalità implicita, pre-fenomenica (Fuchs, 2007; Fuchs, 2013) o “coscienza interna del tempo” (Husserl, 1966). In altri termini, ad un primo livello troviamo un’esperienza del tempo “consapevole”, in cui percepiamo coscientemente il divenire dell’esistenza. Quando siamo per esempio costretti in una situazione poco piacevole, avvertiamo la pesantezza del tempo che sembra non passare mai. Insomma, in questa esperienza il tempo è tematico, si sente. Il secondo livello, invece, è pre-tematico, nel senso che rimane implicito sullo sfondo del nostro esperire fenomenico ma concorre a strutturare il divenire fluido dell’esistenza (Fuchs, 2013; Northoff, Stanghellini, 2016). La temporalità implicita a sua volta è composta da due “momenti”, la sintesi e la volizione (Husserl, 1966), che, insieme, costituiscono il cosiddetto arco intenzionale[6]. L’integrità della sintesi è la condizione di possibilità della permanenza attraverso il tempo degli oggetti e dell’Io e, dunque, dell’identità diacronica[7]; inoltre, permette anche di percepire un oggetto opportunamente esteso nel tempo: ecco perché, in condizioni normali di integrità, siamo in grado di comprendere una frase nella sua interezza, piuttosto che cogliere una successione senza senso di parole e fonemi (Stanghellini, Mancini, 2018). La sintesi, dunque, produce delle connessioni associative fra i momenti successivi dell’esperienza ed integra, da un punto di vista husserliano, i tre momenti dell’esperienza umana sopra citati. L’aspetto della volizione, detta anche conazione[8], implica il “momento energetico” (Fuchs, 2013), ossia il nostro poter essere agenti attivi nell’esistenza; va da se, che l’integrità di questo aspetto comporta una continuità nel percepirsi come soggetti “Io-posso”, ossia come soggetti gettati nell’aver-da-essere.
Nelle persone affette da schizofrenia risulta compromessa la componente implicita, e quindi strutturale, dell’esperienza temporale (Fuchs, 2013): il tempo vissuto viene spazializzato, compartimentalizzato, non più percepito nell’unità ma diviso in blocchi che non assumono un senso unificato. In questa frammentazione del tempo il mondo è percepito come una collezione di immagini istantanee e presenti, senza articolazione dimensionale nel passato o nel futuro[9]. In questo senso, è come se l’esserci della persona schizofrenica sia sempre nell’atto di farsi, in un eterno, abnorme e disteso presente che permea tutta l’esistenza. Tipico di questa modalità difettiva è il vivere in funzione di un presentimento circa il mondo esterno per cui ciò che è più importante è sempre sul procinto di accadere. Le persone schizofreniche non solo percepiscono una disarticolazione del tempo, ma la compromissione della parte implicita è tale da condurre ad una frammentazione dello stesso, fino a giungere sia a disturbi percettivi sia a disturbi riguardanti la coscienza del Sé e il senso di proprietà dell’esperienza. È possibile che la persona possa percepire come estranei pensieri, emozioni e persino il proprio corpo e ritenere che qualcuno o qualcosa interferisca con il corso normale dei pensieri, alterandolo[10]; è possibile che l’individuo non si riconosca nelle esperienze e negli episodi di vita, manifestando un costante senso di alienazione ed estraneità[11] dalla propria esistenza.
Come evidenziato, una delle principali differenze fra le due esperienze trattate è la gravità con cui la disarticolazione e frammentazione temporale si presenta nella schizofrenia e che giustifica l’utilizzo di aggettivi come “abnorme” riferiti al modo di fare esperienza. L’esperienza della temporalità dell’individuo che soffre di DOC è quella di un tempo bloccato (o sul passato o sul futuro) e mai concluso, poco fluido nel suo divenire. Tuttavia in questa esperienza, perlomeno nei casi DOC di minor gravità, non è messo in dubbio l’essere proprio dell’esperienza della persona, fattore invece fondamentale e distintivo dell’esperienza schizofrenica/psicotica.
In alcune forme più gravi di DOC l’evidenza naturale, ossia il sentimento di ovvietà dell’esistenza (Blankenburg, 1971), è talmente compromessa che ciò che la persona vive è una vera e propria interruzione del rapporto con il mondo in termini di sintonizzazione emotiva e spontaneità (Costa, Liccione, Vanzago, 2021). Il tempo vissuto è caratterizzato da un sovrapporsi tanto confusionario dei momenti che lo compongono che l’individuo perde la capacità di distinguere tra fantasia/immaginazione e realtà: egli/ella non può trovare risposta, poiché ciò che gli/le è precluso è proprio la capacità di sintonizzarsi, accordarsi con il mondo. La persona vive in un mondo la cui struttura fondamentale è squilibrata, non più intellegibile e comprensibile, che schiude atmosfere emotive legate all’angoscia e alla paura: ogni passo in un mondo così informe è minacciato dall’indecisione, dalla paura e dall’appalesarsi di possibilità catastrofiche e disgreganti che hanno sempre a che fare con il timore della morte. In questa atmosfera angosciante, disgregata e senza forma (sia temporalmente che spazialmente) è preclusa la continuità di sé ed il sentire-sempre-mio dell’esperienza, come accade nelle forme schizofreniche, fino all’incapacità di riconoscere propri pensieri, azioni e persino il corpo (Straus, 1948).
Senza pretesa di completezza, le riflessioni di questo lavoro sono solo alcuni degli spunti su cui potersi interrogare circa l’esperienza temporale in alcune dimensioni della clinica psicopatologica nell’ottica di direzionare l’intervento psicoterapeutico sempre più verso le strutture implicite dell’esperienza umana.
BIBLIOGRAFIA
Abbagnano, N., Fornero, G. (2006). Il nuovo protagonisti e testi della filosofia. A cura di Giovanni Fornero, Paravia Pearson.
Argomenti di clinica psicologica (2024). A cura di Davide Liccione, Libreria Universitaria Edizioni.
Bergson, H., (1896). Materia e Memoria. Editore Laterza, 2009.
Blankenburg, W. (1971). L’evidenza naturale. Un contributo alla psicopatologie delle schizofrenie pauce-sintomatiche. Raffeallo Cortina Editore, 1998.
Costa, V., Liccione, D., Vanzago, L. (2021). Il mondo estraneo. Editrice Morcellania, Scholè.
Fuchs, T. (2007). The Temporal Structure of Intentionality and its Disturbances in Schizofrenia. Psychopathology, 40, pp. 229-235.
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Minkowski, E. (1953). La Schizofrenia. Psicopatologia degli schizoidi e degli schizofrenici. Prima pubblicazione nel 1927. Èditions Payot & Rivages, Paris, 1997. Tr it Giuliana Ferri Terzian, Giulio Einaudi editore, Torino 1998.
Minkowski, E., von Gebsattel, V., Straus, E., (1967). Antropologia e psicopatologia. A cura di Nicoletta Brancaleoni, Editoriale Anicia, 2013.
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Northoff, G., Stanghellini, G. (2016). How to link brain and experience? Spatiotemporal psychopathology of the lived body. Frontiers in Human Neuroscience, 28, 10:172. doi: 10.3389/fnhum.2016.00172
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Straus, E. (1948). On obsession. Nervous and Mental Disease Monographs 73, New York. Tr it. Sull’ossessione. Uno studio clinico e metodologico. Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2006.
[1] In particolare, ma non esclusivamente, nelle riflessioni di Agostino, che segnano una frattura con la concezione quantitativa aristotelica. Per approfondimenti e una trattazione più completa dell’argomento si consulti il manuale di Abbagnano & Fornero (2006).
[2] Per una trattazione più completa rispetto al tema, si consulti un altro articolo presente sul sito di Psicologia Fenomenologica della stessa autrice dal titolo “Il tempo: tra filosofia e psicopatologia”.
[3] Il termine “temporalità” potrebbe indicare meglio, rispetto a “tempo”, l’aspetto storico e diacronico dello schiudersi e del divenire dell’esistenza. In questo lavoro, si utilizzano entrambi con la consapevolezza di questa precisazione.
[4] L’utilizzo del temine “l’anancastico” è una pura semplificazione linguistica, il cui uso va subordinato ad una breve riflessione che, nel testo, si darà per acquisita: non esistono “l’ossessivo”, “il fobico”, “il depresso”, “l’ansioso” e così via; esistono individui, persone che soffrono di disturbo ossessivo-compulsivo, fobia, depressione, ansia. Ogni sofferenza psichica si manifesta nell’unicità e nella specificità di un’esistenza, tipicamente non inquadrabile in una macro-generalizzazione di tale problematica.
[5] Rispetto al tema della post-modernità, per una trattazione più completa si consulti Lyotard (1979).
[6] Fuchs, 2007. Merleau-Ponty coniò questo termine, basandosi sulle riflessioni husserliane, per sottolineare la connessione fra il soggetto, il tempo e il mondo.
[7] Si pensi qui al concetto ricoeuriano di Ipseità.
[8] Intesa nei termini del conatus spinoziano.
[9] Il fenomeno della perplessità pre-psicotica può essere ricondotto a questa anomalia.
[10] In quest’ottica, le voci sono pensieri vissuti dall’individuo come estranei, spazializzati in una zona esterna del proprio Sé (Stanghellini, Mancini, 2018).
[11] Rispetto a queste tematiche si pensi alle caratteristiche pro-dromiche della schizofrenia (Sass, Parnas, 2003).