parte 1: Sul senso della clinica in medicina
parte 2: Sul senso della clinica in psicologia
Se la dia-gnosis rimanda essenzialmente a un tendere verso – un inclinarsi – come pensare il trattamento sulla base di questa riflessione sulle radici e sul senso della clinica?
Una clinica capace di inclinarsi deve essere capace di creare inter-azione, una relazione asimmetrica, in-transitiva, opponendosi all’imperante transitivismo terapeutico: “ciò che il medico fa col paziente è quasi sempre un’azione transitiva: il medico fa qualcosa al paziente; interroga, palpa, prescrive; e il paziente è tenuto a eseguire, compiacentemente (compliance). La prassi transitiva è indispensabile, in medicina e ancor più in chirurgia, ma non può essere esclusiva: ci sono interazioni, cioè azioni tra (inter) i due protagonisti, che implicano non solo il passaggio di qualcosa dal medico al paziente, ma anche viceversa, dal paziente al medico. Transitivismo vuol dire che si fa troppo affidamento sul fatto che la prassi consista sempre in qualche cosa che il medico fa al paziente: qualcosa che “passa” (transita) dall’operatore all’utente […] Questo spirito transitivista impedisce di cogliere quanto invece il paziente induce (fa passare, fa transitare) negli operatori. In questa maniera si scotomizza l’intersoggettività” (Imbasciati, A., 2008: pp. 15, 17). Qualsiasi intervento tecnico-strumentale – se non inserito in un orizzonte comprensivo umano, di incontro tra persone – comporta un problematico operare transitivo: “il medico è il soggetto attivo che agisce, transitivamente, sul suo oggetto, il paziente, che deve rimaneresostanzialmente passivo. Il paziente deve cioè aderire alla prescrizione (compliance) medica” (Imbasciati, A., 2008: p. 147). Un oggetto (quasi) mai soggetto. Come scrive G. Cosmacini (2016) “non pochi medici e assistiti tendono a ridursi gli uni a prescrittori di ricette e di esami, gli altri a consumatori di certificati e di farmaci”. Diventa questa una cura priva di prendersi cura; una clinica non disposta a inclinarsi in cui a rimetterci sono le persone sofferenti, soprattutto se questo rapporto transitivo si ritrova nella psicologia clinica risultando, se non direttamente iatrogeno, almeno non terapeutico. Questa dovrebbe infatti valorizzare le dimensioni intrapsichiche e affettive, relazionali e comunicative che scaturiscono nell’incontro con il paziente; rifiutare procedure automatizzate e impersonali che anestetizzano la persona, riducendo il suo essere tensione relazionale a statico contenitore di accadimenti psichici. Ma la relazione, esattamente come l’ascolto, diventa strumentale: tecnica e non contatto (inter)umano, standardizzazione e non incontro, scontro di corpi.
Questo transitivismo si inserisce – e si alimenta – in una cultura prettamente interventista (Imbasciati, A., 2008). Da quando si sapeva solamente diagnosticare, impotenti di fronte alla potenza della malattia, siamo arrivati ora all’estremo opposto: si deve assolutamente intervenire, scordandosi di attendere il chiarirsi (dia-gnosis) di una situazione di sofferenza per poter rispondervi costruttivamente, con criterio, e quindi evitare esiti potenzialmente iatrogeni: “spesso si fanno prescrizioni anche quando la diagnosi non è chiarita; a volte – scrive A. Imbasciati (2008: p. 18) – sembra quasi che il medico prescriva per togliersi di torno il paziente”. Un tempo si diceva medicus ipse farmacum (ivi: p. V, 6) considerando la persona del medico in quanto essa stessa un farmaco, intrisa di potenziale curativo. Ma in greco φαρμακον (pharmakon) si riferisce tanto a «rimedio, medicina» quanto a «veleno»: il medico – tanto quanto lo psicologo (clinico) – rischia continuamente – attraverso una prescrizione errata, un intervento non necessario, una relazione inattenta, un ascolto pre-costituito o una parola inopportuna – di provocare sofferenza piuttosto che alleviarla.
Se il farmaco prima di essere somministrato richiede una minuziosa conoscenza del corpo-körper del paziente – di modo da evitare il concatenarsi di effetti collaterali potenzialmente mortali e di trasformarsi quindi in veleno – il medico stesso, per poter esercitare una funzione propriamente curativa, deve non solo saper intervenire tecnicamente sulla malattia, ma inserire questo intervento in un rapporto umano con la persona, carica di una sofferenza che per quanto possa essere primariamente “corporea” trascende il corpo stesso e diventa ansia, preoccupazione, paura, incertezza, incomprensione. Il corpo vissuto – come scrive B. Callieri (1999) – “è il luogo della comunicazione, dell’incontro, della κοινωνία interpersonale”: lo scienziato clinico dell’umano – sia esso medico o psicologo – deve necessariamente percorrere questa strada, consapevole di quanto la relazione coincida con la cura, e assumere una funzione maieutica per riuscire a comprendere la persona oltre i tecnicismi che ne riducono la gravida presenza ad uno sterile essere-presente (Priani, E., 2012).
Ma l’avere-qualcosa-di-fronte sovrasta il poter-essere-con-qualcuno. E nonostante questo il medico resta tutt’ora nell’immaginario collettivo colui che cura (cure) e che si prende cura (care), “il dottore” per eccellenza, “colui che docet, o anche il doctior, ovvero il più dotto” (Imbasciati, A. 2008: p. 87): tutte le restanti professioni sanitarie – tra cui la psicologia clinica – si sono lasciate ammaliare dall’impostazione medica, sulla scia dell’importanza rivestita dal dottore e del riconoscimento socio-culturale di cui era investita la sua professione. Sono diventate accessorie, di solo supporto al doctior, assumendo intenti, forme e tecniche proprie della scienza medica (ivi: p. 139; passim. ivi). Esempio potrebbe essere il rapporto di subordinazione di tanti psicologi nei confronti degli psichiatri: “apparentemente per “campare”, nelle gerarchie dei servizi, ma in realtà perché l’adottarne idee, principi e criteri professionali è più comodo. Operando sullo psichico con metodi e strumenti – e soprattutto con modelli operativi – di tipo medico, risultano graditi non solo agli psichiatri, ma anche ai dirigenti dei servizi, i quali, a loro volta permeati di spirito medico, vengono così esentati dall’operare mutamenti organizzativi e un cambiamento del loro stesso modo di pensare e gestire” (ivi: p. 94).
Pensiamo alla pervasiva centratura sul patologico, sull’anomalo, sulla deviazione da una bio-norma. Questo conduce innanzitutto a concepire – anche in psicologia (clinica) – la malattia come un qualcosa di nettamente – e chiaramente – separato dal normale, dalla salute, come un male alieno (Imbasciati, A., 2008: p. 206) e non come “logía del patire di una persona” (ibidem); a ritenere si possa individuare la noxa, la causa di questo male alieno, e quindi si possa effettuare una corretta diagnosi, con un nome-etichetta, a cui corrisponde necessariamente un corretto, specifico trattamento per il quale si necessita la sola compiacenza, passiva, del paziente; a trascurare promozione della salute e prevenzione dei rischi; a trascurare il malato, la persona – concentrandosi sulla malattia; a un inflessibile – e quindi anti-terapeutico – transitivismo terapeutico (passim. Imbasciati, A., 2008). Ma questa impostazione clinica centrata sulla cura (to cure) e non sul prendersi cura (to care) è in crisi. Lo stesso medico è “un medico in crisi, ora più che mai” (Cosmacini, G., 2016): “la cronicizzazione della crisi è dovuta alle tante lacune di una preparazione che permane inadeguata, alla stagnante atmosfera di burocratismo che il medico respira, alla sfiducia nel rapporto medico-paziente cresciuta in entrambe le parti” (ivi). Crisi in cui si trova la stessa psicologia (clinica) – assente a un discorso sulle proprie radici e sul proprio divenire, sul potenziale derivato da un proprio riuscire a, sapersi declinare diversamente, per potersi poi inclinare.
Si deve tuttavia riconoscere come, se il medico e lo psicologo non sono attualmente capaci a inclinarsi, questo derivi anche da un contesto (di cura) altrettanto incapace; un contesto limitante, distanziante, dis-umano caratterizzato dalla crescita esponenziale di un sapere in continua ridefinizione e dalla subatomica frammentazione di conoscenze e competenze scientifico-professionali; dalla frattura comunicativa e relazionale tra i diversi specialismi da cui sono derivati isolazionismo e protezionismo professionale; dall’avanzamento – spesso subìto passivamente – del sapere tecnologico e l’introduzione di numerosi macchinari e strumentazioni sanitarie; dallo “scientismo che accompagna l’evoluzione scientifica sulla scia dell’immagine della scienza come di apparato invincibile” (Sala, G., 2009: p. 143); dal dominio della (ri)produzione sulla poiesis, del profitto sulla persona, di un’arida prospettiva individualistica su una sofferenza cosmica. “Se il terapeuta accetta di curare la psiche nel proprio studio senza interrogarsi su quale senso ha il suo operare rispetto al mondo – scrive G. Francesetti (2014: p. 25) – allora è un esecutore inconsapevole di un compito sociale, che potrebbe anche essere quello di contribuire a mantenere lo status quo: complice nel tenere la vita psichica isolata e fuori dal mondo, costruendole un rifugio dorato nella stanza terapeutica”.
Pensiamo alla chiusura delle istituzioni manicomiali e alla costituzione di indorate strutture territoriali e ospedaliere: questa voleva rappresentare un tentativo di superamento – per numerosi aspetti riuscito – dell’anacronistica e inumana assistenza psichiatrica. Ma ancora si trovano Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura in cui si respira un’aria manicomiale, “un clima desertico esattamente uguale a quello che avevamo sperimentato in ospedale psichiatrico” (Ammaniti, M., 1981. In Caretti, V., & Lombardo, G. P., 1981: p. 38). E questo si intreccia con una cultura organizzativa dei Servizi sanitari caratterizzata da “una progressiva spersonalizzazione del paziente, ridotto a un “caso”; un “letto”; un numero, un tagliando” (Imbasciati, A. 2008: 88). Nei servizi sanitari operatori e pazienti sono considerati numeri; numeri da cui si ricavano numeri per rispondere statisticamente a obiettivi di carattere prettamente finanziario in linea con le scelte operative dettate dalla fabbrica sanitaria orientate da una sorta di determinismo economico (Caretti, V., & Lombardo, G. P., 1981; Zanzi, M., 2002; Imbasciati, A., 2008; Cipriano, P., 2013; Dario, M. et al., 2016: pp. 552-555) per cui il fine ultimo diviene soltanto “confermare gli attuali assetti organizzativi, i propri obiettivi finanziari e lo stato di buona governabilità” (Zanzi, M., 2002: p. 84). Oramai “tutto è ridotto all’idea del prodotto” e “la nuova organizzazione del Servizio Sanitario Nazionale obbliga a risolvere i problemi finanziari della sanità, non i bisogni dei cittadini” (ibidem). Parimenti alle strutture manicomiali, anche l’assetto istituzionale contemporaneo “attraversato da un apparato di autoreferenzialità burocratica” (Priani, E., 2012) rema inoltre contro il crearsi di uno spazio di assistenza e cura attento alla persona: “l’istituzione – come sintetizza Priani (2012) – finisce così per essere piegata agli obiettivi parcellizzati, puntiformi e singolari di chi vi opera e non è più volta al servizio di coloro che dovrebbero realmente fruirne: sul piano formale e burocratico, l’istituzione continua ad erogare prestazioni di cura e di assistenza sanitaria; sul piano sostanziale e dei contenuti, ma soprattutto sul piano del vissuto dei pazienti, l’istituzione è alienata in sé stessa, è cronicizzata”.
L’incontro tende ad essere trascurato. E le scienze cliniche operanti in questo contesto rischiano quindi di divenire veleno e di essere contaminate da un silenzioso ritorno al pensiero manicomiale: questo sembra ripresentarsi inarrestabile nel tempo, come dimostrano le pratiche di contenzione, le sbarre ancora in uso all’interno delle strutture sanitarie che dovrebbero prendersi cura del malato. Non aveva torto Basaglia nel momento in cui avvertiva del potenziale rovesciamento acritico dell’ideologia psichiatrica istituzionale: istituzionalizzato l’anti-istituzionale, la cura territoriale “buona” ha preso il posto della cura manicomiale “cattiva”, spesso senza portare a termine una riflessione sul proprio poter-essere propriamente una scienza clinica dell’uomo per l’uomo. Ma la contenzione – in tutte le sue forme – non si presenta solamente in psichiatria, ma anche nella psicologia e nella medicina. Come ricorda Angelozzi (2019: p. 492) “è facile scivolare in stili dove la protezione diventa facilmente una sostituzione nelle scelte, un paternalismo più o meno esplicitamente direttivo che vuole operare in nome della persona, ma finisce per operare al suo posto”, sostituendosi a quest’ultima nella propria cura, spesso con risultati non solo controproducenti – come accade con alcuni trattamenti (psico)farmacologici o (psico)terapeutici – ma anche potenzialmente mortali – si pensi al TSO e alla sua presunta funzione sanitaria.
Pensiamo ancora al letto ospedaliero. Nell’articolo Contro il letto, falso sinonimo di cura (2020), Benedetto Saraceno riflette su quanto questo sia la sola, povera risposta del sistema sanitario alle persone con disturbi cronici (compresi i disturbi psichiatrici), curate in strutture residenziali “più o meno protette, più o meno manicomiali, pubbliche o private o private convenzionate” (p. 1): ma queste poliformi residenze non sono parte reale del contesto socio-comunitario circostante, sono un agglomerato di letti utilizzati secondo la logica ospedaliera. “Letti per vecchi, letti per matti, letti per tossicodipendenti, letti per disabili fisici e psichici. Il letto sembra essere l’unica risposta immaginata e resa disponibile anche a chi invece non ha bisogno di un letto se non per dormire e, in conseguenza, i cosiddetti «cronici» devono non solo dormire in un letto ma abitarvi come se il letto fosse la unica dimensione della cura e della riabilitazione” (ibidem). Si dovrebbero invece realizzare interventi psico-socio-sanitari di lunga durata (ILD) e istituire Case della Salute, ossia spazi della e per la Comunità, in cui le persone possono riappropriarsi della propria cura avvolte da un tessuto comunitario capace di accoglierle, sentito come proprio e esso stesso cura.
TSO e letto ospedaliero si inseriscono all’interno di una cultura incapace a inclinarsi, a in-tendersi verso l’altro. Una cultura capace solo di contenere, costringere, allettare. E proprio questa cultura deve cambiare, attraverso un radicale sradicamento dell’attuale sistema (sanitario) per creare un’assistenza tanto ad personam, quanto pro civitate. Saraceno scrive di quanto sia necessaria una «clinica» che non tenga il paziente disteso (Saraceno, B., 2020: p. 5): se si ritorna al senso antico della κλίνη si nota come sia incrementato nel tempo lo scarto tra l’inclinarsi del professionista e lo stare allettato del malato. Il doveresta tutt’ora il letto – nonostante il differenziarsi, ramificarsi delle strutture sanitarie – in cui si distende il malato, lo si anestetizza, lo si rende passivo, impotente. Il come si distorce, ormai non ci si inclina ma si sta eretti, potenti, e si prescrive, si interviene, si cura. La “posizione distesa del malato ed eretta del medico simboleggia e concretamente realizza quella differenza di potere fra curato e curante, fra cittadini e sistemi sanitari. La clinica e il suo letto divengono il segno tangibile della asimmetria dei poteri e la drammatica distinzione fra «senso» prodotto da chi ha il potere e «senso» prodotto da chi potere non ne ha: il senso prodotto dai deboli, dai vulnerabili, dai poveri vale meno del senso prodotto da chi ha il potere” (ivi).
Ci si rende conto dell’esistenza di questo scarto? E di quanto sia essenziale ridurlo? Ma si riesce a creare una «clinica» in cui il paziente resta in piedi (ivi) e in cui il professionista sia contemporaneamente capace di in-tendersi, inclinarsi verso quest’ultimo?
Medicina e psicologia (clinica), per poter esistere in quanto scienze cliniche dell’uomo per l’uomo e non solamente in-sistere perpetuando una concezione immiserita, allettata di quest’ultimo, devono sostare insieme in un indifferenziato terreno intriso di potenziale com-prensivo, una radura informe in cui si riesce a co-creare nell’incontro – tra scienze cliniche, tra professionisti, tra persone – una clinica propriamente umana. Si deve ritornare all’indifferenziato, all’informe, al tra per sostenere l’emersione al confine di un qualcosa di bello. Per poter comprendere una persona e la sua sofferenza i concetti o costrutti accademici – appresi attraverso una formazione naturalistico-scientista essenzialmente sterile, morta – non sono sufficienti – per quanto importanti: nella situazione in vivo ci si deve incontrare, si deve patire, sentire; ci si deve ammalare, lasciandosi temporaneamente indietro le riflessioni caratteristiche della postura eretta per tornare alla consapevolezza corporea e alla sua orizzontalità, approssimarsi quindi alla carne e alla sua conoscenza informe (Salerno, G., 2022). Ma questo “è possibile solo se accetta di rinunciare a quasi tutto ciò che gli hanno insegnato secoli di tradizione scientifica occidentale che da Galileo a Cartesio con le loro idee “chiare e distinte” […] Bisogna esser disposti ad abbandonare la sicurezza dell’equilibrio statico, quello delle diagnosi una volta e per sempre e dei protocolli impersonali, per far propria l’idea di un equilibrio in movimento che mette continuamente in discussione Sé e l’Altro, alla costante ricerca di nuovi orizzonti di verità intersoggettiva. Per mettere in pratica questa clinica informe c’è bisogno di una sorta di vocazione alla crisi – o vocazione al naufragio, come scrive poeticamente G. Di Petta (2022) – che consenta di mettere ogni volta in discussione ciò che è dato per certo una volta e per tutte. Al costo di questa apertura alla crisi e alla sofferenza il clinico ottiene in cambio un luogo sacro, quello dell’incontro con l’alterità in campo terapeutico” (ibidem).
La clinica rimanda quindi necessariamente all’incertezza – a una certezza mai certa, precaria. Ci si inclina per com-prendere, per tendersi verso l’incerto con l’intento poietico di renderlo con-certo. E questo risulta possibile solo se si riesce temporaneamente a so-stare in questo indifferenziato, a intonare nell’incontro – come un jazzista (Pallagrosi, M., 2014) – un canto capace di prendersi atmosfericamente cura della situazione terapeutica, capace di dimostrare alla persona e alla sua sofferenza il nostro esserci, il nostro essere presenti. L’incontro – qualsiasi incontro – diviene quindi arte, opera dell’incerto; un’opera in cui ci si deve intonare costantemente per (ri)sentire questo canto – un canto mai identico –, distanziarsi dall’an-estesia[1] e co-creare bellezza, una bellezza relazionale[2] (Francesetti, G., 2014).
Creare contrapposizioni tra una clinica propria della medicina o della psicologia, come all’inizio di questa riflessione, credo non sia attualmente tanto essenziale quanto differenziare una dimenticata clinica propriamente umana da un’attuale clinica dis-umana, che non conserva nulla di umano. Si deve riconoscere come il solo inclinarsi del professionista non sia sufficiente: questo deve essere compensato dal rialzarsi della persona sofferente, dalla decostruzione del letto (o del lettino) come sola possibile cura e dal rifiuto di un sistema di strutture sanitarie incentrato sull’allettare, sul ridurre a malato. Si deve rivitalizzare il contesto comunitario; ricucirne le lacerazioni provocate dall’indifferenza del nostro tempo. Si deve ridurre l’ormai abissale distanza tra il non-inclinarsi del “professionista” e l’essere allettati del “malato” con l’intento di ridurre le differenze di potere e restituire dignitàa una relazione (di cura) propriamente umana. Contemporaneamente si deve contrastare un pervasivo sentire scientifico-professionale capace solamente di curare, ma non di prendersi cura; di anestetizzare, ma non di sentire, patire, stare; di prescrivere, inscrivere nel paziente le proprie convinzioni, ma non di imparare, ascoltare, stare in silenzio; di intervenire, ma non di sostare. Tutto questo si ritrova tanto in medicina quanto in psicologia (clinica) e intacca profondamente la salute delle persone. Non si tratta di rifiutare aprioristicamente la tecnica[3], quanto piuttosto – come affermato precedentemente – di essere sostenuti alla base da una concezione complessa, intersoggettiva dell’essere umano capace di orientare qualsiasi successivo intervento curativo. Si tratta di saper fare propria l’incertezza di qualsiasi incontro e di prestarsi costantemente all’emersione – al prender forma da questo informe – di un qualcosa di potenzialmente trasformativo, poietico, terapeutico.
“È motivo di amarezza dover constatare che oggi si debba giungere a definire «buon medico» o «bravo infermiere» un professionista per il solo fatto che, per sua personale dote o virtù, sta ad ascoltare il paziente o è premuroso con lui; o dover constatare che la «bontà» o la «bravura» sia solo appannaggio di quei medici o infermieri che hanno scoperto in se stessi che cosa significa essere malati” (Cosmacini, G., 2016)
[1] “L’anestesia può essere ingrediente del benessere per un Korper (un corpo anatomicamente inteso, quello che il dentista considera sdraiato sulla sua poltrona), ma non per un Leib (un corpo vivente) che vive e ama: come si può amare ed essere anestetizzati?” (Francesetti, G., 2014: p. 9).
[2] Una bellezza “effimera, transeunte, non oggettuale, come una melodia nell’aria irriducibile alla corda e al timpano vibranti, pur dipendendone, si libra nello spazio-tempo intersoggettivo e si esaurisce. Non persiste, dunque. Quindi a quale scopo la cerchiamo e la creiamo? Perché, abbiamo detto, trasforma e lascia traccia. Con la pienezza dell’incontro, che sentiamo come bellezza, generiamo beni relazionali: questi si producono attraverso un’esperienza che può comportare dolore o piacere, non importa, ma è sempre una esperienza estetica: sentita e vera […] La bellezza relazionale suscita commozione, che genera un co-movimento bilaterale: […] nella bellezza relazionale nasce un muoversi insieme che non può essere ‘posseduto’, perché è effimero. Il contatto con questa bellezza genera trasformazione” (Francesetti, G., 2014: p. 14-15).
[3] O i risultati ottenuti dall’impostazione (bio)medica e dall’insieme di studi bio e neuro.
BIBLIOGRAFIA
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